giovedì 5 febbraio 2015

Il Rapimento





Si era trattata di un'imperdonabile leggerezza.
I vistani la seguivano da prima che entrasse nel tempio e non aspettavano altro che l'occasione per avvicinarla da sola, senza la protezione del suo accompagnatore.
Anche il loro approccio era perfettamente prevedibile: l'oscurità della sera e l'indifferenza dei baroviani erano lì a proteggerli, in due le venivano incontro mentre un terzo la attendeva nell'ombra, eppure c'era cascata in pieno.
La ragazza non fece in tempo a formulare il suo incanto per svanire da davanti ai loro occhi. Avrebbe dovuto farlo prima, appena uscita dal tempio, ma aveva ancora paura a rivelare la sua natura persino ai suoi compagni di viaggio.
Venne colpita alle spalle e sentì subito le gambe cederle, le forze venirle meno e perse i sensi.

Rinvenne all'interno di un vardo in movimento, ricoperto su tutte le pareti da drappi colorati, abbastanza spessi da oscurare qualsiasi fonte di luce esterna, relegando ad un piccolo lume ad olio oscillante il compito di rendere appena visibile l'ambiente circostante.
Era adagiata su una scomoda branda, imbavagliata e legata mani e piedi. Uno dei suoi rapitori era seduto di fronte a lei, la fissava senza realmente osservarla, il suo sguardo perso da qualche parte tra i ricordi e l'immaginazione. Erano Zarovan.
La testa le doleva ancora alla base della nuca, ma la debolezza che le attanagliava le membra non era dovuta a quello: era stata drogata, non riusciva a pensare nitidamente e quasi non sentiva le gambe, figuriamoci cercare di sollevarsi o ribellarsi.
Il vistani sorrise mostrando un vistoso quanto opaco dente d'oro.

Le somministrarono la stessa sostanza altre due volte durante il viaggio, provò a sputarla ma persino la lingua era intorpidita ed il compito più arduo del suo rapitore fu il sincerarsi che non soffocasse.
Quando finalmente il vardo si fermò, la tenda rossa venne spostata e la piccola porta sul retro aperta. L'ambiente angusto venne inondato da luci abbaglianti e suoni di festa: tamburelli, liuti e flauti. Faticò a discernere se fossero reali o frutto della sua immaginazione distorta dalla droga.
Era quasi il tramonto e le acque della cascata di Tser riflettevano un cupo arancione schiantandosi fragorosamente nello stagno sottostante.
La sagoma del Castello incombeva inquietante sulle pareti aguzze e frastagliate del Passo di Svalich.

Un numero imprecisato di donne, sia bambine che fanciulle che rugose anziane, si affaccendarono attorno a lei lavandole il viso con panni umidi, spogliandola dei suoi abiti da viaggio sporchi e malconci e ricoprendola di nuovo in caldi, profumati e colorati tessuti vistani.
Le raccolsero i capelli e detersero la fronte, li fermarono con un fazzoletto, coprendole la fronte ed annodandolo sotto la nuca.
Rimase in balia del delirio e di decine di mani che continuavano a girarla, spostarla, spingerla e trascinarla.

Quando le luci e le ballate svanirono anche la trottola si fermò.
La testa continuava a pulsare e attorno le sagome dei colorati vistani avevano lasciato spazio alle tetre dimore degli abitanti del villaggio di Barovia, barricati dietro pesanti scuri già dal calar del sole.
La carrozza nel centro della piazza era lì per lei. Due maestosi destrieri dagli occhi neri come pece erano gli unici a condurla, nessun postiglione, nessun paggio. La porta si aprì per lei e l'invito silenzioso ad accomodarsi fu, nello stato mentale in cui si trovava, semplicemente irresistibile.
Sedette e le palpebre pesanti si chiusero mentre la carrozza prese la via per il fianco del monte.

Non passarono che pochi minuti quando rinvenne. Il mezzo era ancora in movimento, spostando la tenda vide dall'alto il cupo splendore del passo di Svalich, attraversando su uno stretto e lungo ponte di pietra le cascate di Tser, affacciata su una valle completamente sommersa dalla nebbia, con le poche luci del villaggio di Barovia e le molte del campo Zarovan a far capolino nella foschia.
Svanì tutto all'improvviso quando gli zoccoli dei destrieri iniziarono a calpestare il legno di un massiccio ponte levatoio ed i bastioni del castello avvolsero la carrozza facendola sparire dal resto del mondo.

La ragazza provò ad aprire lo sportello prima che fosse troppo tardi, ma una forza oscura lo bloccava e non poté nulla fino a quando il viaggio non fu concluso.
La testa le pulsava ancora, le membra deboli per lo stordimento e la gola arsa dalla sete; i colori vivaci del Campo di Tser avevano lasciato il posto ad un grigio cortile interno, circondato da muri invalicabili di pietra scura.
L'unica illuminazione proveniva dalla luna ormai quasi piena che appariva a tratti tra le nubi e da un paio di torce lasciate accese all'ingresso del mastio, ad indicarle la via. Lo sportello si aprì senza che nessuno fosse fuori ad attenderla, i destrieri immobili a capo chino, come se avessero improvvisamente esaurito ogni energia vitale.
Martha roteò lentamente su stessa e alzò lo sguardo, in cerca di altre vie d'uscita. il ponte levatoio cigolò e finì di chiudersi fragorosamente alle sue spalle, sagome terrificanti di immobili guardiani di pietra sembravano osservarla dalle merlature: orribili gargolle dalla fronte cornuta.
Tutto appariva vuoto e fermo, eppure la ragazza percepiva la presenza di infinite creature, tante quante erano le guglie e gli anfratti oscuri della colossale fortezza. Percepiva su di se lo sguardo di mille occhi malvagi e si sentì nuda, fragile, impotente.
Le gambe le cedettero nuovamente e cadde in ginocchio.

Pensò di rimanere ferma lì, o trovare di nuovo rifugio nella carrozza. Era terrorizzata, la spaventava ancor di più il fatto che nulla stesse accadendo, come se il male in agguato non aspettasse che una sua mossa per manifestarsi e quindi preferiva restare ferma, inerme, cercando di calmarsi, di raccogliere le idee, detestandosi per come era finita in quella situazione, cercando di scardinare il portone immaginario che la separava dal resto dei suoi ricordi e che forse avrebbe potuto dare un senso a tutto ciò che ora le capitava.
Si portò le mani alla testa ed urlò all'aria fredda della notte tutta la sua frustrazione.

Come a rispondere al richiamo i portoni del mastio si aprirono, di nuovo senza che nessuno fosse lì, mostrando un corridoio illuminato e lussuosamente arredato, percorso fino in fondo da un lungo tappeto viola e nero.
Martha avvertiva il tepore provenire dall'interno della fortezza, le fiamme calde delle torce la invitavano ad avvicinarsi, la stessa sensazione che l'aveva portata ad entrare nella carrozza, lo stesso richiamo innaturale e ancora, nonostante la sua mente fosse stavolta sgombra, parimenti irresistibile.

Attraversò l'ampio corridoio, dipinti ed armature, arazzi e stendardi. Tutto immobile, tutto freddo, la temperatura interna del castello non era più alta di quella all'esterno, sul gelido pendio del monte, ma quell'inspiegabile calore continuava ad avvolgerla, a trainarla e lei, incantata, attraversò inseguendolo corridoi e rampe di scale, in cui le torce si accendevano al suo passaggio e spegnevano di nuovo alle sue spalle, facendo sprofondare nell'oscurità il sentiero da lei percorso.
Giunse infine nell'ampia sala da pranzo in cui il suo ospite la attendeva, seduto all'estremità opposta di un tavolo che poteva ospitare dozzine di invitati a cui erano però accostati soltanto due scranni sugli opposti lati corti.
La tavola era apparecchiata, servizi pregiatissimi in oro e cristallo, dovevano valere una fortuna, eppure nessuna pietanza era stata preparata, nessun maggiordomo era lì ad attenderla. La stanza era vasta e fredda ma anche vuota, poteva intuirlo nonostante il buio circostante dato che l'illuminazione era talmente scarsa da abbracciare solamente l'area appena circostante al tavolo.


Il calore, l'unico vero conforto in quel luogo terrificante, proveniva dall'uomo seduto all'altra estremità della tavolata. Strano a dirsi perché nel profondo dell'animo la ragazza poteva chiaramente avvertire che tutto il castello, tutto l'orrore che provava e tutto ciò che le era successo in passato e sarebbe presto accaduto dipendevano esclusivamente da quella figura: il Conte Strahd Von Zarovich.
Illuminato a malapena dalla fioca luce di un candeliere il Signore di Barovia sedeva impassibile carezzando con le dita affusolate un massiccio calice di vino. Gli occhi scuri, magnetici, incorniciati da folte sopracciglia brune, erano fissi sulla sua ospite, incapace a sua volta di distogliere lo sguardo.
La fece sedere, perché era ormai assodato che lei non potesse far nulla che non fosse la volontà del suo ospite, e poi rimase a fissarla in silenzio per lunghi istanti.

Martha voleva aprir bocca, voleva parlare, forse gridare, forse implorare pietà oppure porre mille domande sui perché che da troppo tempo continuavano a tormentarla, come se l'uomo davanti a lei fosse un dio, in grado di fornirle le risposte, fornirle una causa per ogni evento che aveva tormentato la sua esistenza fin dalla nascita ed in grado di renderla di nuovo cenere in un batter d'occhio.
Il cuore le balzò in gola quando il Conte parlò:
"Mi sembra ovvio che ci sia stato un malinteso."
La voce era calda e profonda, avrebbe potuto definirla persino affascinante se tutto il contesto non suggerisse invece soltanto solitudine e disperazione.
"Eppure la raunie ha insistito perché tu fossi qui ed ora ne comprendo il motivo."
Il Conte si alzò, rivelando una statura sopra la media e la corporatura massiccia di un condottiero, avanzò lungo il tavolo sfilandosi dalle dita un raffinato guanto di seta nera.
Un osservatore esterno avrebbe detto che la ragazza sembrava completamente ammaliata e concentrata su quella figura, ma non avrebbe saputo ascoltare le grida della sua anima terrorizzata ad ogni passo che la rendeva più vicina.
Le dita nude del Signore di Barovia erano fredde come metallo, carezzarono delicatamente il volto di Martha per scivolarle lungo il collo lasciato scoperto dagli abiti vistani e poi giù fino all'orlo del vestito. La ragazza chiuse gli occhi umidi di lacrime mentre il Conte le scopriva la spalla, rivelando il misterioso marchio che magicamente le era stato impresso.
"Ed ecco ciò che desta il mio interesse... ma ne discuteremo dopo cena."

Un istante dopo la ragazza venne violentemente pervasa dallo stesso calore che fino ad un istante prima percepiva provenire dal suo ospite, il suo corpo si sollevò in preda ad uno spasmo improvviso mentre canini sottili ed affilati come lame penetravano nella tenera carne del suo collo iniziando a risucchiarne sangue e linfa vitale.
La paura svanì insieme al dolore, la coscienza si perse in una dolce assuefazione mentre i sensi abbandonarono Martha, che finì esanime per abbandonarsi tra le braccia del Conte.

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