martedì 6 novembre 2018

De la Magna Pugna de Maro e dello sacro rituale



Nelle ore del periculo l'animo nobile viene fori
e così che li nostri eclettici recitarono il memmento mori

Impavidi e gajardi varcaron la soglia dello tempio
vuoto lo trovaron con l'altare pronto per scacciar l'empio

Li compiti eran ben divisi, ognuno sapea il fatto suo e cosa fare
non v'era tempo per chiacchiere, risate o inutili fanfare

Nelle pertinenze dello sacro portone
ce se appostarono li frati armati de spadone e padellone

Vicino all'ara sacra v'era lo posto per celebrar lo rituale contro lo spirito risorto
non ve fu dubbio era lo posto de li evocatori  Samael, Derpa e da Latinus come supporto

Li due alchimisti se miseron nascosti tra le colonne
tra alambicchi pozioni, aste invocando le sacre madonne

Allo centro dell'immenso stanzone se piazzò l'impavido ser Tristano
libero da incarichi precisi er Peregrino variava pronto a dar una mano

Lo momento era topico ed era facile dar di matto
uno squarcio bucò il soffito tutto d'un tratto

Calarono dall'alto li demoni forzuti
Li nostri risponderon tosti e cazzuti

Non ve fu tempo de tergiversare
armi sguainate se doveva menare

Innumerevoli nemici calaron dal soffitto scadenzati come rime di una sciarada
Obiettivi lo sacro rituale interrompere e prender possesso della magica Spada

Frandonato roteava padelle e spade manco fosse un esercito intero
schivando, contrattaccando e resistendo alle ferite con piglio fiero

Derpa perì all'istante Samael e Latinus entraron in scena velocemente
efficaci, perfetti nelle movenze, senza sosta lavoraron alacremente

Lo Magistero Alchimista Pirreo con mille pozioni, tutti aiutò
e quando fu disperato lo momento Alburno in drago se trasformò

Ser Tristano rispondeva colpo su colpo, fu scudo per gli evocatori ed indomito baluardo
lo Peregrino, saltava qui e lì portando aiuto lanciando magie insomma facendo il bardo

D'un tratto lo portone si spalancò ed altri nemici nel tempio sciamarono
Guidati da Emmeus ed Asmodeus sull'infame cavalcatura scompiglio portarono

Come se fossero un unica mano gli Eclettici Viandanti risposero compatti i ranghi serrando
tagliando, rintuzzando, travolgendo, resistendo, sbatacchiando e li nemici ciancicando

Più volte caderono, feriti malamente e sanguinanti li fratacchioni
per rialzarsi subito, più forti de pria e con girati pure li cojoni

Alburno lo Drago de demoni e padroni fece scempio
scuotendo fin nelle fondamenta lo sacro Tempio

Ser Tristano se pose a difesa dello circolo arcano, invocando MARTE ad ogni nemico ferito 
Peregrino fu supporto a li compagni, piaga per li nemici ed invocatore de Lampi con lo dito

Latinus impavido a velocità sovraumana eseguì lo rituale
aiutato dalle entità da lui evocate per i nemici fini male

Cambiata la sorte avversa e spezzata la maledizione
Con l'orgoglio ed il valore spazzaron via la disperazione

Scemaron gli Eclettici su li poveri nemici superstiti come saette
cambiaron le sorti avverse de una città ormai costretta alle strette

Un raggio de sole squarciò le oscure nubi, illuminò lo tempio bruciando i demoni cornuti
riportando li giusti Dei ed illuminando gli eroi de tale impresa artefici, da Samael voluti

Dalle strade di una Maro devastata sortì il suo esercito e si riversarono per le vie le genti inneggianti
uno solo coro si alzò nel cielo "IMMORTALI" da oggi e per sempre sia reso grazie agli Eclettici Viandanti

venerdì 2 novembre 2018

La Fine de lo Viaggio

«Magister Latinus! Magister Latinus» sussurravan li vendemmiatori in taverna stanchi, al vederlo comparir sull’uscio e farsi strada tra li suoi banchi.
«Ma chi è sto Magister Latinus?» chiedeva uno bischero forestiero, «Lo signore dei campi a nord dello lago» rispondeva un nostrano faccendiero
«Ma è quello che alleva li capibara?» chiese uno collo naso immerso nella zuppa, «Semmai li coltiva...» rispose un tal che si da arie con in mano una gran coppa
«Ma non andò a Maro da più di un lustro?» chiese dal fondo un rustico locale, «Macché! fu qui sino un par d’anni fa» rispose un avventore seduto sul bancale
«La taverna l’è piena - disse l’oste Pitro - ma una ciotola e del vino non si nega ad uno Magister come voi sommo» pulendo sul bancone con uno straccio, che n’avea un gran bisogno
«Solo verdure, e agnello di Tartaria, per lo vostro delicato palato, ma la casa v’offre anche uno vinello fermentato»

Lo magister si sedde attendendo l’abbondante e popputa bionda figliola dello oste Pitro, che con sorriso e grandi occhi, portò una gran ciotola di calda zuppa e mescette una coppa di vin fermentato, tipico di codesti posti del Sacanto.
«Siete invero voi la Mara? - chiese lo Magister accennando un sorriso - manco da tant’anni se noto solo ora che vi siete fatta donna» assaggiando lo vino che friccicava un poco in bocca.
Ella arrossì, abbassò lo sguardo e rispose «Io son sempre stata qui e quivi cresciuta, ma voi… voi avete visto Maro e li posti de Laitia, per così tant’anni! Dite dite, come fu lo viaggio?»
«Visitai lo Magistro Samael a Maro, dove anche fui in passato e studiai per anni, e fu lui a guidarmi e poi a mandarmi verso li suoi bizzarri e affascinanti amici che mi furon compari:
«Lo Magistro Alburno, maestro di pozioni, che sa essere forte come un drago ma c’ha uno cuore… un’acume d’oro
«Lo robusto e inaffondabile Frandonato, forse un frate o uno prete, mai capito, maestro di padella sia per cucina che a darla in fazza a qualche avverso astante
«E lo Peregrino, che a definirlo in qualche modo lo si svilisce, esperto di magilla e di favella, musico, lanciatore e combattente, svelto de mano… e de bacino»

«E ciò che portate indosso, è gran bottino?» indicando gli ornamenti lustruosi che s’appendevano alle vesti logore di gran viaggio, mentre da una pitta riempì a nuovo la ciotola di zuppa.

«Codesto allo mio collo è uno globo del potere, preso dallo Valente ma che invero fu per noi arcanista infame che innanzi ci si oppose in angusta cripta; fermammo li suoi incanti e li suoi sgherri, mentre lo frate lo spadellava e di lui e delli altri rimase solo una gran frittata.
«Ed esta è treccia di guerriero Murias; dicono che più son forti e più sono lunghe le loro trecce, e codesta, come vedete, mi fa da cintola e ne avanza pure un frego; con la mia frusta lo fermai mentre lo bardo lo distrasse con li suoi trucchi, che più dello demonio ne conosce.
«Con questa mia frusta! Che vien guidata dalla saggezza dello spirito de chi la usa, e può esser letale contro nemici troppo avventati, che sian essi murias, banditi, cavallier o biro biro, seppur con li demoni e le avverse presenzae, forse è meglio usar d’altre arti.
«La cerbottana che spunta dallo zaino, non la guadagnai ma mi fu invero donata dallo Magistro Alburno per uno anonimo atlante, e seppur non potente come li suoi intrugli che san di menta e rendon viva la pietra, può tirare luci che bucan le cotte e li giachi, e quel di vivo che v’è in mezzo.
«L’elmo e lo pugnale son doni divini, e la fascia mi fu data dallo Magistro Pirreo, che fu Alburno trent’anni fa pria di diventar pietra, per un alambicco, mentre per lo falcetto… beh… questa è un’altra storia...»

La Mara s’appoggiò allo bancone, mento posato sulle mano, petto strabordante e otre de vino in davanti alla ciotola dello Magister, e con l’occhi spalancati «Dite dite, Magister, quindi ne avete fatte di avventure?» Un bel sorso, qualche cucchiaiata, e riprese
«Chiamar avventure le nostre imprese, è sminuirle! Potrei parlar voi de lo libro che proferisce solo bestemmie, o di quando lo Magistro Alburno si fece leone e sbranò lo Belloveso. De li ilcisiani lohm di Orbizzana, che anche se hanno musici non li chiamarei “lohmbardi”, o di quando ci addentrammo nelle paludi guidati dallo vendramino; de li pelosi puzzolenti e delle loro flautolenze, o della Torre Caldara dove avvenne lo storico incontro. Della chiesa de li pellegrini, ove lo Peregrino trovò lo sacro osso del nonno e poi col suo gran lampo de li infami mostri fece uno scempio. Di quando lo Frandonato si aprì la strada tra li demoni, scambiando padelle e spade sacre con lo sè stesso Gaudente. Di quando le schiere di Prol ci portaron in salvo oltre il baratro spinoso, ove lo stesso frate cadde ma tranquillo vi si rialzò. Delle esplosive pozioni di Alburno buone sia per esplodere la pietra che per curare malanni, al retrogusto di menta, o di quando bandii in un angusto antro l’entità che teneva uno blasfemo artefatto.
«Infine di come lo divino Xul fu d’appoggio nelle critiche ore di scatenar anatema, passando ad aiutar me o lo Magistro mio, mentre di divina possanza, Lami, Aba e Genio empivamo l’atrio, Sir Tristano spanzava demoni e lo bardo a cavallo dello Drago Alburno schiacciavano Asmodeo e le sue schiere. Di come evocai la luce per spazzare li demoni nell’ora più angusta di Maro, mentre li compagni miei e loro doppi che di pietra non furon più, facevan la storia falciando empie figure al comando da lo maledetto Emmeus.
«Ma non solo di pugna furon le nostre avventure; ricordo, anche un po’ con dolore di recchie, delle abboffate da li vendramini, ovvero, con gioia, delle tre dame in quel di Ertama; di quando auscultai lo bardo che si ricongiusse con li rossi parenti del nonno, o dello piatto di frandonara per lo drago in Lycaonia. Di quando lo frate provò per più volte a parlar con Dama Sicoi, l’entità ancestrale, o del drago di Nirte dalli bruciori di stomaco; de li ori alchemici da cui lo Magistro Alburno si separava sempre con dolore ma che sembrava averne una fonte inesauribile, quasi li potesse produrre, e che pure alla fine donò alla Scola de lo Fosso. Oppure raccontarvi delle bizzarre creature, dai Cuccafratti ai Bestacci, che nel nostro cammino non ci furon ostili ma anzi si rivelaron alla lunga dei validi alleati...»

«Perdonatemi, mia cara Mara, del mio divagar. Ogni ricordo si aggiunge ad un altro e ogni racconto si impreziosisce di altri racconti, seppur rimanendo troppo limitato nei particolari, perché intere giornate non basterebbero a tesser le lodi de li compagni miei, e a narrar le nostre gesta in queste terre, di come facemmo la storia e riscrivemmo il passato, e lo futuro dello passato» bevve l’ultimo sorso di vino fermentato, accompagnato, avendo finito la zuppa, da qualche secco biscotto.
«Non scusatevi, Magister, starei ore e giorni solo ad ascoltare de li vostri viaggi e delle vostre gesta; de li vostri bizzarri compagni, che magari un dì potrei pure conoscere se passassero in questi luoghi. Non viaggio mai, e sentir li vostri racconti mi fa immaginar di esservi stata...»
«Potrei raccontarvi delle nostre storie anche stasera stessa - asciugandosi il baffo sporco di vino con un fazzoletto - se non vi duole di viaggiare a dorso dello mio mulo fino alle mie terre, a nord, pria che lo sole scenda e si faccia buio. E se v’aggrada l’indomani, ve farovvi vedere le mie piantagioni di capibara, che son piante molto festose e si diverton a giocare con nuovi e vecchi visitatori»
Mara si alzò dalla sua postura, abbassò un attimo lo sguardo verso manca a riflettere, e infine rispose «Ne sarei ben lieta, se mi deste qualche minuto per ripulirmi dello sporco di cucina e salutar lo babbo»

E così al tramontar del sole s’allontanaron Magister Latinus di Pelopia con la sua futura dama, verso le di lui terre. Niuno lo vede passar nuovamente per la taverna, anche se lo vecchio Pitro qualche volta andò a trovar la figliola, e tornò pieno di nuovi racconti, di lui e de li suoi compagni, che ogni tanto salivano a trovarlo nelle sue terre. E si narra di baccanali e di orgie, di lungo disquisire tra Magistri, di sperperi di cei tra piaceri mondani e tomi ed arti di conoscenza che solo i più saggi potevan capire. Si narra di gente che arrivò in carovane, di monache avvenenti e senza sottane, di esplosioni arcane nella notte e un odore di menta lungo le rive dello lago. Ma anche di sagre per la povera gente ove si offriva carne di capibara e abbondati piatti di frandonara, e senza fine giornate intere di canzoni, mentre carretti si aprivan e vendevano al pubblico le loro pozioni.

E si narrava e cantava delle imprese
Degli impavidi eroi e di chi le fece
Che fecer la storia di queste lande
E divenner leggende fino alle sponde
E non so come né perché finirono
Perché leggendarie imprese furono
E le Leggende son viaggio ch’oggi si inizia
e mai vien il giorno ch’esso finisca