mercoledì 22 giugno 2016

El Jefe

Sono nato a Juarez, o come la chiamate ora voi gringos El Paso, nel 1848; un anno importante per voi in Europa ma non da meno per noi chicanos, finalmente era finita la guerra con gli Stati Uniti. Finalmente c’era la pace. Anche se non troppo duratura.

Comunque il piccolo Javier Garcia nasceva in una bella famiglia, gli Abredo, con una mamita dolce e premurosa che mi fece crescere forte. Ci occupavamo principalmente di allevare i cavalli del nostro senor e fin da subito mi innamorai di queste bestie immense e spettacolari. E devo dire che, porca vacca, mi riusciva proprio bene. Ero il migliore e il più veloce a domarli, così come a catturare i Mustang selvatici che si aggiravano per i territori. Che io sia dannato se non era una dannata bella vita.

Ma lo sappiamo tutti che queste cose non durano a lungo in questo mare di deserto e cactus. Se con il tempo si cresce e si creano cose belle, famiglia e ninos, è pur vero che arrivano le fottute responsabilità e anche i fottuti problemi: l’esercito mexicano. Quando hai i cavalli migliori di tutto il confine è facile che los vertes ti vengano a chiedere supporto. Fu cosi che iniziai piano piano a andare con l’esercito portando le nostre bestie per tenerle a bada; spesso occorreva che ai cavalli venissero coperti gli zoccoli con la yuta per non fare rumore, per missioni come dire, particolari. Solo che le mie bestie difficilmente si fanno toccare da senza palle quali i vertes e quindi dovevo andare con loro. Lasciando la mia famiglia a casa. Non so perché ma in poco tempo mi ritrovai anche io immischiato nelle missioni speciali dell’esercito e in quegli anni ho fatto cose, come direste voi damerini, non belle. E forse Dio mi punì per questo, anche se c’era poco di divino in ciò che vidi quella sera. Una cosa che ancora mi tiene sveglio nella notte e che solo l’alcool riesce a tenere a bada.
Capii subito che qualcosa non andava, lo capii da miglia di distanza, dal fumo che si innalzava dalla hacienda. Spronai il cavallo, penso di non aver mai corso tanto, lo frustavo così forte da fargli uscire il sangue. E quando arrivai li, li vidi. Che il diavolo mi si porti, erano bestie immonde, creature dalle fattezze umane ma dai denti acuminati e bramosi che dilaniavano le carni come fossero burro. Li vidi sbranare persone che conoscevo e queste rialzarsi e partecipare all'infernale banchetto. Sentivo le grida, i nitriti, l’odore del sangue, della morte e, che Dio mi liberi da quest’orrido suono, dal rumore di masticare e delle ossa rotte. Mi feci largo scaricando tutti i proiettili e colpendoli con tutto ciò che trovavo, volevo raggiungere la mia famiglia, anche se sapevo già che non sarei mai arrivato in tempo.
E lo vidi. Vidi il mio Pablito chino su mia moglie, pensavo che piangesse la madre morta, coperta di sangue. E invece ne stava dilaniando le carni. Ero paralizzato, il revolver fumante in una mano e una spada nell'altra, circondato da creature eppure non riuscivo a fare altro se non guardare questo scempio. Guardavo l’orrore e l’inferno dritto negli occhi. E mentre guardavo loro furono subito vicini. Continuavo a sparare, ricaricare e macellare membra; era un delirio. Rimasi con le spalle al muro e pensavo che sarebbe finita li, con i denti di quelle creature a sventrarmi. Ma nel furore sentivo altri colpi, altre voci oltre alle mie imprecazioni e inizia a vederli cadere. E sentivo una litania, una litania in una lingua che avevo sentito solo da i preti quando ero piccolo.

E poi tutto svani. Come un branco di lupi, qualcosa li richiamò in branco e sentivo che iniziavano a correre via verso il deserto. Anche Pablito, anzi no, non Pablito, ma quella cosa alzo la testa con la bocca rossa di sangue e si girò per inseguire il richiamo. Senza pensare gli svuotai contro gli ultimi colpi prima di cadere a terra privo di sensi.

 Mi risvegliai in un gruppo cosi eterogeneo che pensai di essere ancora svenuto o sognando; voglio dire avete mai visto un gringo negro, un pellerossa e un giallo tutti insieme? Sopratutto guidati da un fottuto prete armato fino ai denti. Per ore ho pensato che fosse una specie di strano sogno, anche se le ferite erano guarite, continuavano a fare un male cane, e questo dolore mi confermava che non era un sogno. E se non lo era. dovevo vendicarmi, dove uccidere quelle cose e riprendermi il corpo di Pablito. Ovviamente dopo averlo ucciso.

Ciò che accadde dopo lo ricordo per immagini: noi che seguivamo le tracce del branco e la sua scia di morte e distruzione; i corpi e le haciende in fiamme; un canyon, una grotta, un altare Maya e su di esso un medaglione da cui i morti sembrano attratti, se non richiamati; le esplosioni nella grotta e brandelli di carne di morto volare in ogni direzione e mi pobro Pablito che mi corre incontro bramoso della mia carne; il medaglione spezzato dal prete e i fremiti dei brandelli dei morti che cessano tutti insieme; il silenzio; il corpo di Maria e di Pablito in una fossa, la hacienda in fiamme e il gruppo dei cacciatori che si allontana verso l'orizzonte; io che parto verso nord, verso il confine. E poi solo il deserto e i cactus. Per giorni. Senza sosta. Fino a svenire nuovamente per la fatica e il caldo.

E poi apparvero nuovi compadres, un gruppo di chicanos come me trapiantati in America. Non so cosa videro in me, forse l’orrore che mi portavo addosso, ma non mi rapinarono ne presero i miei cavalli. Iniziai a stare con loro, a vivere insieme a loro, nessuno mi chiese molto di chi ero e come ero arrivato li. Scoprii che si occupavano di, come dire, espropriazioni proletarie, soprattutto in banche o treni postali. Era una bella vita, diversa dalla mia precedente, ma avevo pur sempre a che fare con i cavalli e volevo pensare a qualcosa di diverso dal quello che ogni notte mi tormentava. Ero bravo, molto bravo in quello che facevo, tanto da guadagnarmi il titolo de El Jefe, il capo; gli uomini mi seguivano anche in imprese al limite dell’impossibile.
Eppure per ogni scorribanda che facevamo, per ogni rapina o per ogni bevuta c’era qualcosa che mi rodeva dentro, la mia vita precedente che avevo schiacciato dentro e sotto gli abiti del bandidos. Qualcosa che mi diceva che ero una persona decente, un uomo buono e non un criminale.Lasciai di nuovo una vita, la mia seconda e tornai aldilà del confine, nella mia terra natale, verso i miei demoni. 

…ed è per questo che ora sono di nuovo qui da te, padre, per chiederti aiuto per iniziare la mia terza vita. Per ricominciare.”

domenica 12 giugno 2016

Errando per Laitia - Episodio 7

De li Vermoni, Luponi et Minchioni


Li racconti de lo buon Magistro riguardo la fine delle lor vicende con la Lupa Abba sono invero incredibili. Se non avessi io stesso veduto co li miei occhi li effetti prodigiosi che taluni filtri producono, oserei dubitare della storia che di seguito narro per via de la bizzarria de li attori coinvolti.
Pare infatti che da la crepa che lo infame Manomarcia aprì nel terreno emerse uno verme di proporzioni gargantuesche, lo Vermone de la Bassa, che però, anzichè farsi pasto de lo mulo et li nostri buoni amici, finì ipnotizzato come uno serpente ne le storie d’oltremare da la musica de lo flauto de lo valente Pellegrino Scarlatto, che così non solo salvò tutti da fine certa, ma procurò loro uno inarrestabile alleato ne la battaglia che di lì a poco si prospettava; giacché niuno de li nostri eroi avea intenzione alcuna di lasciar impunito lo Rognoso per l’affronto loro arrecato!


Rimesso in sesto lo carretto et raccolta ogni cosa utile lo gruppo si affrettò dunque su per la via che conduce al lo Monastero de lo Lupo et lì di presso, a la Grotta Parlante.
Giunsero lo girodì successivo, trovando lungo la via tracce di colluttazione tra li selvaggi Biro Biro et lo branco de la Lupa che avea, a giudicar da le carcasse, avuto la peggio.
Li nostri eroi, al cui seguito era Fra Ululone, irruppero annunciati da le verdi et letali fiamme alchemiche di Alburno et interruppero lo malefico rituale con lo quale Manomarcia intendea sacrificar li tre superstiti, Zano, Settimo et Stanobio per vincolar la fiera errante a lo suo volere.
Di lì esplose una gran rissa, tra Biro Biro, la Lupa, lo Vermone, oscure potenze evocate da cupe parole di potere de lo Rognoso, li nostri eroi et le litanie di Fra Ululone lo cui scopo era salmodiare fino a ricacciar la fiera oltre li invisibili cancelli da li quali proveniva.
Ne la battaglia lo buon Tristano quasi ci lasciò le penne quando cadde colpito da un incantesimo di morte di Manomarcia, ma l’eroico Magistro si lanciò nella mischia per soccorrerlo, venendo ferito ma riuscendo ne lo intento.
Mentre Ululone et i neo liberati superstiti tenevano a bada la feroce Lupa Abba invocando lo nome de lo Signore Senza Tempo, lo Vermone de la Bassa facea scempio de le carni de li Biro Biro in rotta et Frandonato, homo tutto d’un pezzo et ricoperto di metallo, mulinava randellate costringendo lo bieco Rognoso in un angolo.


Quando finalmente la Lupa Abba cadde, svanendo ne la nebbia che l’avea generata, Manomarcia tentò la fuga. Alburno, soddisfatto a sufficienza per avergli guastato i piani e dato la lezione che meritava, urlò di lasciare che scappasse ma lo frate in armatura non fu magnanimo come lo suo dio professa ed apprestati arco et freccia scoccò una saetta che trafisse ne la schiena lo nemico, lasciandolo stecchito.
Nessuno pianse per la morte de lo sgherro di Auriate, solo uno Biro Biro sopravvisse, ma anche li nostri eroi pagarono un prezzo, seppur lieve a confronto con la sfolgorante vittoria di cui eran protagonisti: Tristano rimase zoppo, colpito da lo incantesimo necrotico del nemico. Storia che in seguito non fece che aumentare la fama di eroe che lo buon Pellegrino si era caparbiamente meritato.


Seguì il concludersi de la vicenda, con ringraziamenti et festeggiamenti. Furon felici et riconoscenti tutti li sopravvissuti alla pugna et li frati del monastero, oltre ovviamente a lo Conte Gualfero di Epilorna che elargì ingente pecunia et pubblico apprezzamento.
Tutto era perfetto, Alburno avea anche convinto lo generoso Conte ad assoldarlo per risvegliar, tramite processo alchemico, lo potere sopito de le gemme de li brillocchi più puri de la sua corte. Frandonato avea denaro et fama sufficienti per poter far baldoria come più gli aggradava et Tristano, nonostante la zampa ferita, avea donzelle calde bramanti de le sue attenzioni… eppur tra tutte lui scelse quella sbagliata.


Lo scoprirono lo mattino seguente a li festeggiamenti, quando lo Conte di persona con li suoi cavalieri vennero a cercarlo con cattivi intenti.
Lo Pellegrino era saggiamente fuggito a cavallo già alle prime luci dell’alba, dopo una notte di fuoco con la Contessa.
Gualfero di Epilorna: CORNUTO.
Tutto ciò che avean fatto, rischiando l’arresto, la pellaccia et facendo mille sacrifici era così vanificato dalle irresponsabili voglie di un guitto di strada, dom non di nascita ma di fatto.
Lo gruppo lasciò di fretta li territori di Epilorna, non più gradito et con lo Magistro non ancor retribuito.


Lo ritorno a Zena fu perlomeno tranquillo. Frandonato comunque soddisfatto, Fidenzo taciturno come lo suo solito et con Alburno che non volle rivolger parola a Tristano per tutto lo tragitto.
Quando infine giunsero nuovamente da Ottavianus Firminus egli acconsentì, vista la buona riuscita de la missione affidata, a collaborare per ripristinare li studi su la Regola Aurea.
Sarebbe servito tempo, forse mesi, et così ognuno andò per la sua strada.


Ser Giorgius de lo Novo Popolo cadde in battaglia per mano de lo bandito Robolone.
Iulianus lo Pio Eremita fu una fugace apparizione e forse erra ancora per Laitia.
L’assassino Serafino, o Magellino, si abbandonò alle amorevoli cure di fanciulla in quel di Leceria.
Fra Frandonato da Tauria insegue lo suo scopo, le sue virtù, ma soprattutto li suoi vizi, dove più l’aggrada.
Tristano lo zoppo, o Pellegrino Scarlatto, si imbarcò per Pelopia, in cerca di uno mentore di arti arcane per scopi non ben precisati.
Lo Magistro Alburno, homo di grande virtute et conoscentia, rimase a Zena, immerso ne li studi alchemici, perfezionando la Regola Aurea di Ottavianus Firminus e perseguendo lo suo personale scopo di cui non è però ancor giunto lo momento di parlare.