martedì 15 dicembre 2015

Il Grido del Rapace




Il gelido vento penetrava nelle ossa di Warwic, l'attesa nella foresta non avrebbe aiutato con un clima così rigido, i suoi compagni sparsi sapientemente all'incrocio poco prima dell'entrata nella tenuta dei Buchvold, tutto era pronto per la riscossione del debito con Pate.
Il momento di ripulire il nome della banda dello Straniero era finalmente giunto, era arrivato il momento di ridare il senso che avrebbe dovuto avere alla banda di Pate. Le bande si erano formate liberamente ed autonomamente per richiedere con i fatti un indipendenza ed un trattamento più equo per la popolazione gundarakita, era stata tentata la via diplomatica ma senza successo, a pochi dopotutto importava il destino di una minoranza seppur corposa del popolo di Barovia. Poco importava se quella minoranza erano in effetti i veri abitanti indigeni del luogo. Così pochi valorosi decisero di formare delle piccole bande per impegnare dove possibile gli eserciti del Conte, i primi successi, dovuti principalmente al fatto che fossero battaglie inaspettate ed alle quali l'esercito di Barovia non era pronto, diedero gran voce a quell'ideale. L'esempio della banda dello Straniero fu da stimolo per la vessata popolazione gundarakita, e la banda raddoppiò il proprio numero ed i propri sostenitori. Le bande così come erano conosciute nella valle del Gundar erano organizzazioni con un fine, con un ideale, che rispecchiavano il fiero popolo gundarakita e che miravano alla sua indipendenza. A seguito degli eventi tristemente noti e della persecuzione delle stesse bande, le stesse dovettero disperdersi, portando con se gli ideali che le avevano formate.

Di tutto questo Pate non proseguì nulla, quel mezzo cane bastardo, convinse e riunì un manipolo di delinquenti e disperati e si proclamò imperatore degli straccioni, andando ad occupare un posto che non gli competeva e strumentalizzando il concetto di banda per i suoi loschi fini criminali. 

Warwic nel freddo e nella lunga attesa pensava a come tutto questo fosse stato possibile, a come un mentecatto avesse avuto modo di continuare ad esercitare tale attività, era chiaro che fosse in combutta con qualcuno, che qualcuno avesse dato il proprio benestare, altrimenti gli eserciti del Conte avrebbero potuto spazzare via quella feccia senza esitazione ne perdite. Ma ancora una volta l'interrogativo pesante riecheggiava "A chi in realtà interessava il fato della povera gente gundarakita ? ". Non erano questi i problemi a cui Barovia doveva oggi pensare, era piuttosto una cospirazione nata dal suo stesso ventre, alimentata dal suo flaccido seno e fomentata da un morbo di antica era, una "malattia" che non conosceva padroni ne riconosceva ideali se non quello della propria esistenza e prosecuzione della propria progenie.

Warwic doveva ogni notte mandare giù quell'amaro boccone, la libertà del suo popolo raggiunta grazie ai "notturni", come a lui piaceva definirli, raggiunta solo ed esclusivamente grazie a loro, un prezzo molto alto al quale i comandanti della rivolta della valle del Gundar dovevano far fronte. Warwic eseguiva gli ordini come ogni altro soldato, sebbene di soldato aveva ben poco, ma non poteva far a meno di avere un peso sulla sua coscienza. Lo definiva un salto dalla brace alla padella, e quindi un miglioramento, aveva imparato che le rivoluzioni non si costruiscono dal nulla, e lo aveva imparato sul sangue dei suoi fratelli ed amici.

Non era stata una vita facile quella del giovane Maestro, era cresciuto con la morte nel cuore, ad iniziare dalla sua stessa famiglia che lo abbandonò fin da piccolo, si era sempre chiesto chi fossero e dove questa vena artistica che albergava in lui avesse avuto origine, erano troppo oscure le nebbie intorno al suo passato né oggettivamente aveva avuto un momento di calma per pensarci, nè tanto meno per indagare sulla sua vita.

Il combattimento si svolse freneticamente, benché non tutto andò come programmato, le ottime abilità dei suoi compagni si rivelarono preziose, così come il loro sapiente uso della trama e non mancò nemmeno la fortuna ad assisterli, in pochi minuti Pate era agonizzante in terra. Un forza improvvisa permeo la mente ed i pensieri del bardo, le sue mani tremavano dalla rabbia, il dolore gli diede la forza di non vacillare. Mentre la corda tesa vibrando rilasciava la mortale freccia un suono vibrò nell'aria e ben presto si tramutò in un sibilo sussurrante antiche parole. La loro musicalità lasciò di stucco Mastro Warwic, mai avrebbe potuto comporre versi di tale linearità, mai nella sua vita avrebbe potuto eguagliare i suoni di quella lingua incomprensibile, eppure nella sua mente risuonavano le parole del giuramento e le sue labbra lo ripeterono afone per non disturbare quel suono che sospinse la freccia fin dentro l'orbita oculare del Segugio, di fatto concludendo la Vendetta.

Warwic rimase attonito per lo spettacolo di cui si sentiva spettatore più che esecutore, benché la sua perizia con l'arco, seppur non dichiarata era ben al di sopra della normalità, mai avrebbe potuto scoccare con tale precisione, mai aveva visto una delle sue frecce descrivere una parabola tanto precisa quanto inumanamente perfetta la rotazione con la quale vibrava nell'aree.

L'arco era ben più di quel che gli era stato detto, quell'arco quasi gli sussurrava all'orecchio, aveva quasi una sua volontà, ma il bardo impugnandolo non riusciva a considerarlo uno strumento esterno bensì come parte delle sue articolazioni, un estensione del suo stesso braccio. Il dolore lo sprofondò in un umore grigio e nero, benché fosse stato vendicato in quel preciso momento il lutto per la morte di Rannarth lo pervase completamente, come una diga che si infrange per il vigore di un fiume, la diga che tratteneva le sue emozioni si polverizzò, cercò di contenersi ma scoppiò in un pianto liberatorio, del quale non volle mettere a conoscenza i compagni. Per questo si defilò e dovette prendersi qualche minuto per tornare in se stesso. 

La razionalità tornò sovrana dei suoi pensieri e gli suggerì che non c'era tempo da perdere il resto della banda andava sgominato.    



lunedì 7 dicembre 2015

L'Ultimo Volo dell'Aquila




La trovò rannicchiata in un fosso, inerte, tumefatta, con le vesti lacere e ricoperta del suo stesso sangue rappreso. Rannarth temette che fosse morta.
Aveva seguito le ultime istruzioni dello Straniero, aveva condotto i suoi ranger al sicuro, preparandoli a difendersi al Pinnacolo dal nemico in avvicinamento, ma non era riuscito a rimanere lì con loro ad attendere al pensiero che lei non aveva ancora fatto ritorno.
Ridiscese a valle da solo, cercandola disperatamente, seguendo le indicazioni che la stessa Leda aveva condiviso prima di mettersi sulle tracce di Pate.
Il Segugio era quello della banda che si trovava più a suo agio in ambienti urbani, nascosto tra la folla piuttosto che nel fogliame. In qualsiasi borgo persino l'Uccisore avrebbe avuto più difficoltà di azione, non potendo invaderlo apertamente con il suo esercito di spiriti dannati; eppure anche Pate andava avvertito, andava messo in guardia. La banda era stata tradita: il nemico conosceva ogni loro nascondiglio, ogni rifugio e punto di raccolta, i nomi di tutti i Capocaccia.

Tre giorni dopo la sua partenza Leda era lì, riversa in terra ed in fin di vita.
Rannarth la individuò grazie alla vista acuta di Itzya, la regina del suo stormo, sollevò la ragazza tra le braccia e le baciò la fronte, poi intraprese nuovamente il cammino verso le montagne.
Sostò al vecchio Campo Roboris, dove il Grande Cacciatore riorganizzava una squadra di volontari:
"Galiena e i suoi sono caduti, Vas e gli altri esploratori non hanno fatto ritorno. Cosa è successo alla ragazza? Che ne è di Pate?"
"Non lo so Hugo, ma intendo scoprirlo, è viva per miracolo. Del Segugio nessuna traccia, spero sia riuscito a dileguarsi almeno lui."
"Attireremo l'Uccisore a nord, daremo il tempo agli altri gruppi di radunarsi e nascondersi e attenderemo lo Straniero come da programma, hai bisogno di una scorta?"
Rannarth scosse il capo: "Ho occhi su tutta la valle, raggiungerò i miei sui monti e ci barricheremo al Pinnacolo, devo prendermi cura di Leda."
"Allora buona fortuna amico mio, ci ritroveremo al ritorno dello Straniero oppure saremo di nuovo compagni di caccia nelle sconfinate foreste dell'aldilà. Qualsiasi cosa succeda, non permettergli di strapparti l'anima..."
"Mai fratello e nemmeno tu!"

Con passo lento ma fermo, attraverso sentieri che molte guide definivano impercorribili, Rannarth portò in spalla Leda fino alle vette dei monti Sawtooth.
Itzya ridiscese dal cielo in tempesta recando infauste notizie: nel becco stringeva un frammento di stoffa grigia e verde dei ranger dei monti intrisa di sangue. Di lì a poco le prime impronte, in salita ed in discesa, di un nutrito gruppo di persone.
Rannarth aveva bisogno di tornare nel rifugio per medicare Leda, pur sapendo che sarebbe potuto finire in una trappola mortale, ma fu sollevato dal dover prendere una decisione quando di fronte a lui si palesò il nemico.
Percepiva lo sguardo della creatura su di se, nonostante l'elmo fosse un teschio metallico privo delle orbite. Il silenzio fu rotto dopo lunghi attimi di tensione dal Maestro delle Aquile:
"Sei qui per me."
La voce dell'Uccisore era atona e metallica: "Soltanto per te, se è quello che ti preme sapere."
"E allora perché sterminare tutti gli altri?"
"Perché ho subito delle perdite e mi servivano rimpiazzi."
"Voglio che la ragazza viva."
Il nemico si fece di lato, liberando la via per il Pinnacolo. Rannarth la percorse e ad ogni passo sentiva gravargli maggiormente il peso della disfatta, l'avvicinarsi della sua ora, man mano che attorno, tra la neve e le rocce, si affacciavano i volti svuotati della vita e dell'anima dei suoi compagni di un tempo, ora marionette in mano all'Uccisore.

Nessuno dei suoi ranger era morto nel capanno di caccia sulla cima del monte, avevano tutti perso la vita combattendo o forse qualcuno, si augurava Rannarth, era riuscito a scampare sia alla morte che al ben più crudele destino che il nemico riservava loro.
Adagiò Leda sul giaciglio e accese il fuoco, lasciò accanto a lei coperte e ciò che avrebbe potuto utilizzare per medicarsi al suo risveglio. Tornò all'esterno privo di ogni arma.

Il Pinnacolo era un gigantesco sperone di roccia sulla sommità del monte, un trampolino sul vuoto con la magnifica cornice dei monti innevati tutto attorno.
Rannarth percorse la roccia e percepì verso metà la presenza del nemico alle sue spalle, si volse per affrontarlo:
"Manterrai la parola?"
"Morirai senza combattere?"
"Non avrai la mia anima."
"Gli accordi sono per la tua vita e quella degli altri comandanti."

...

L'Uccisore percorse i pochi passi che lo separavano dal ciglio del Pinnacolo e si affacciò oltre l'orlo.
Non ci fu nulla di epico né poetico nell'osservare attraverso l'elmo del teschio senza orbite il corpo del Maestro delle Aquile sfracellarsi al suolo, centinaia di metri più in basso.

domenica 6 dicembre 2015

Gelo e brama



Vassily riaprì gli occhi al buio, il respiro affannato: il freddo mordeva le sue carni come artigli di una fiera mentre penetrava sino al midollo. Bloccato sotto una slavina di neve, contuso ma vivo, cercò di muoversi all'impazzata nel tentativo di liberarsi mentre il panico cresceva dentro di lui. Non poteva morire così, aveva sempre immaginato di morire in mille altri modi:  pugnalato alle spalle da un presunto alleato, torturato da uno dei nemici dei Romanov, giustiziato per uno dei suoi tanti crimini, divorato da una delle immonde creature del Conte, persino avvelenato o ucciso nel sonno da una laida donna dopo aver giaciuto con lei. Tutti modi più consoni alla sua vita da sgherro, da bastardo cresciuto a pane, furti e coltelli: tutte morti cruente, infami, velate da tradimenti, complotti e scontri. Ma una morte così banale, come quella di qualunque commerciante sprovveduto colto dal maltempo, non l'aveva proprio mai immaginata.



Non si sarebbe arreso facilmente, non era nelle sue corde di bastardo,  avrebbe lottato fino al suo ultimo, gelido respiro. Iniziò a scavare come un indemoniato con le mani, la neve gli arrivava sul viso, nella bocca aperta mentre urlava chiedendo aiuto, congelandogli il fiato sin dentro i polmoni. Scavò per lunghi interminabili minuti finché le sue mani, ormai ridotte a pezzi di ghiaccio insensibili e mero strumento di salvezza, non grattarono via l'ultimo strato di neve. I suoi compagni videro la sua mano guantata spiccare nella neve e lo tirarono fuori, mezzo congelato, ferito e distrutto ma vivo. Aveva ancora tempo per morire in un modo a lui più consono.


Continuarono la loro marcia nella bufera, con tre cavalli in meno, con Feldon più morto che vivo a causa della slavina che li aveva sorpresi, finché la fortuna non arrise loro nella forma di un casino di caccia. La porta era mezza scardinata ma per il resto il rifugio era quanto di meglio si potessero augurare per trovare riparo dal freddo.

Mezzo nudo davanti all'ampio camino che scaldava il capanno, Vassily desiderò ardentemente che avvolta sotto la grossa coperta che lo copriva ci fosse anche Juliska. La bella, testarda e pericolosa donna che aveva lasciato a Zeindenburg a combinare chissà cosa a sua insaputa. Era ancora infuriato con lei per la vicenda di Feldon, ma non per questo non bramava le sue forme: l'avrebbe presa con forza, trattandola rudemente, per sfogare la sua rabbia, per ricordarle che le doveva obbedienza. Poi si sarebbe accasciato su di lei, scaldandosi tra i suoi seni. Si svegliò invece con la voce di John che cercava di metterlo in allerta riguarda a chissà quale pericolo, mentre lo scuoteva bruscamente. Esausto Vassily biascicò qualcosa al mercenario e si rigirò nelle coperte incurante dei reclami di John, del freddo e dei pericoli che si annidavano fuori del capanno. Quella sera i suoi compagni dovevano fare a meno di lui, era troppo stanco, non voleva pensare a niente, desiderava soltanto riposarsi tra le braccia di Juliska, inebriarsi del suo odore, della sua pelle per ricordarsi di essere ancora vivo. Si riaddormentò cercando invano nel sonno le calde carni della sua focosa ed imprevedibile amante distante miglia e miglia da lui, stringendo tra le mani la grezza lana della coperta.