martedì 24 febbraio 2015

Il Luogo più Sacro





La Nebbia del portale era densa al punto da sembrar solida. L'intera figura di Mircej svanì alla vista dei compagni in un batter d'occhio.
Il ragazzo si ritrovò solo, nel silenzio più totale, dimentico dei rumori dello scontro e delle grida dei compagni impegnati nello scontro con le ombre. Poi, la luce.

Mircej portò una mano davanti al viso, accecato da un caldo bagliore rosso che lo avvolse non appena emerse dall'altra parte del portale di nebbia. Il freddo ed il buio della notte baroviana avevano lasciato spazio ad un'aria limpida e frizzante, ricca di ossigeno e viva.
Appena gli occhi si furono abituati a quel repentino cambio di luminosità iniziarono ad apparire le forme degli alberi, una lussureggiante vegetazione di faggi, querce ed aceri, rigogliosi in un mite autunno che nulla aveva a che spartire con quello rigido ed umido che si era lasciato alle spalle.
Sopra le cime degli alberi il cielo sembrava risplendere di quel bizzarro alone rossastro, come se un incendio avvampasse in lontananza ma senza poter percepire il calore ed il pericolo delle fiamme. Ancora più in alto il rosso sbiadiva fino al blu più profondo che il figlio di Lavinia avesse mai visto in vita sua.
Un firmamento totalmente privo di nubi mostrava un'infinità di puntini luminosi, stelle brillanti e corpi celesti quanti mai avrebbe potuto immaginare che esistessero.

Mircej rimase per pochi istanti incantato da quel paesaggio così meravigliosamente alieno per ciò a cui era abituato quando un paio di passi pesanti alle sue spalle lo fecero voltare.
Lukan emerse curvo ed ebbe la sua stessa reazione al cambio di luce, Andrej seguì pochi istanti dopo, crollando su un ginocchio, visibilmente provato dallo scontro per la conquista del portale che lo aveva lasciato quasi esanime.
Mircej li vide emergere da un vero e proprio muro di Nebbia che sembrava circondare l'intera area, troncando la vegetazione di netto dato che non era possibile vedere al suo interno per più di un palmo. Sembrava palese che la via dalla quale erano entrati non avrebbe potuto funzionare anche per il ritorno.

Mira ed Astrid vennero letteralmente sputate fuori dal grigio, crollarono a terra una sopra all'altra e mentre la diurna non tardò a rialzarsi spolverandosi le vesti, apparentemente illesa, la giovane thaani preferì restare a terra, ansimante, anche lei priva delle forze in seguito al tocco delle ombre.
Dopo apparve Kuzja, ancor più stremato, reggendosi al bastone con la precarietà di una capanna fatta con due carte. Guardava ancora indietro, verso la Nebbia, sperando intensamente di non essere stato l'ultimo a varcare quella soglia...

Lucius e Martha infine attraversarono il portale e dopo di loro, con sollievo per tutti, nessun altro.
La ragazza sembrava illesa, se non addirittura rinvigorita dall'adrenalina della situazione, sosteneva il suo accompagnatore, praticamente inerme, che si lasciò accasciare sull'erba ancora umida di rugiada, sorridendo sollevato nel constatare che tutti ce l'avevano fatta: avevano finalmente raggiunto la Radura dei Sogni Infranti.

lunedì 23 febbraio 2015

La Furia


La notte era senza ombra di dubbio il periodo della giornata preferito dalla piccola Mira, a differenza dei suoi coetanei umani per lei l'oscurità era un posto rassicurante dove nascondersi e dove essere uguale agli altri. Che non fosse come loro le fu ben chiaro fin dall'inizio dell'età cognitiva, cosi come che fosse considerata un "essere malvagio". Aveva fatto ormai il callo a questo, aveva ormai digerito il boccone amaro che le era stato servito, ma era sempre stato così. 
Vi fu un tempo in cui Mira, non capiva le conseguenze del seme lasciato dentro se stessa, non comprendeva cosa significasse essere "diversi". D'altro canto come puoi dire ad una piccola creatura, venuta al mondo senza madre né padre che è differente e per il suo aspetto fisico e verrà sempre isolata dagli altri. Nessuno ebbe il coraggio di dirgli quello che lei stessa avrebbe compreso sulla sua pelle negli anni a venire.
Evoluzione naturale, Mira si isolò, imparò a vivere contando solo su se stessa e sforzandosi di essere la migliore in tutto ciò che faceva, un disciplina ferrea auto imposta che le permetteva di avere un senso ed uno scopo nella sua vita. Imparò fin da subito ad odiare la specie che le aveva fatto dono di tanta diversità. Imparò da subito a convivere con quel "tratto" che da una parte la elevava al di sopra degli altri regalandole dei vantaggi e dall'altra la condannava ad una vita differente e solitaria.

Dopotutto la Falange non era un posto per tutti, gli allenamenti erano duri, richiedevano una predisposizione mentale e fisica notevole, ed i più deboli soccombevano alle ferree regole della scuola. Mira non si affezionò ai suoi compagni se si escludono alcuni sporadici casi, la maggior parte la invidiava, vide tanti iniziati passare e tanti uscire sdraiati su barelle. Da quel poco che sapeva del mondo che prendeva forma all'esterno, Mira accomunava la Falange ad una tana di lupi. Un posto dove far branco, ma un posto molto pericoloso dove crescere, agonismo, invidia, ferocia, fanatismo, una ragazza doveva crescere e farlo in fretta in un luogo simile.
I duri allenamenti la provarono fisicamente, più volte dovette ricorrere alle cure del cerusico locale, benché imparò che anche in quel caso la sua "stirpe" fosse differente, visto che i rimedi efficaci erano ben differenti dalle normali cure alle quali gli umani si affidavano. I primi anni di addestramento lasciarono il segno nell'animo ma soprattutto nel fisico della bella Mira. Sulla schiena il segno delle lance Kuri, particolari lance con una punta arrotondata usate per allenarsi, in particolare una appena sotto alla scapola destra, ed un all'altezza del fianco sinistro, dovute all'intensivo allenamento volto a schivare i colpi multipli. Benché le lance fossero non letali perforarono le sue carni lasciandole indelebili segni per i quali spese ore in infermeria. Sul braccio destro invece fu un Kama a lacerarle la cinerea pelle, colpo portato dal maestro Vidiq stesso, suo mentore fin da bambina. Vidiq era come Mira, apparteneva alla sua stessa razza, inutile dire quando si affezionò a lui e quanto egli rappresentò quella famiglia che mai ebbe. Sul piede sinistro invece c'era ancora la cicatrice di quella trappola che non riuscì ad evitare e che le perforò da parte a parte il piede, lasciandola esanime ancora una volta alle cure del cerusico.

Ma se gli anni degli allenamenti furono difficili, Mira non avrebbe mai immaginato quanto potessero essere pericolose le missioni alle quali sarebbe stata sottoposta. La Falange, non è una compagnia mercenaria né tanto meno un'agenzia a pagamento. I suoi disegni, piani ed obiettivi sono spesso nascosti agli iniziati ai quali viene insegnato ad obbedire con cieca devozione a qualsiasi ordine loro impartito. Il tratto distintivo dei suoi appartenenti è senza ombra di dubbio l’uniforme, un cappuccio grigio scuro indossato su un volto oscurato da pitture nere e parzialmente coperto da un velo, il tutto rende impossibile identificare le fattezze di chi la indossa. Coloro che ne fanno parte sono i migliori in circolazione, misteriosi, schivi ed addestrati per missioni in solitaria.
Mira aveva imparato ad attingere alla sua enorme rabbia, dovuta alla sua particolare condizione, nei momenti di bisogno, grazie anche alla sua concentrazione fuori dal comune ed alle sue eccezionali doti atletiche, aveva imparato come massimizzare il suo potenziale. In quei momenti, uno sguardo attento potrebbe rivelare di aver visto un bagliore differente nei suoi occhi ed un ghigno dipingersi sul suo volto, in quei momenti la concentrazione dei suoi colpi e la velocità dei suoi movimenti sembra enfatizzarsi in quella che potrebbe essere definita come una trance, perfettamente richiamata e controllata dalla giovane donna. Questo fervore e questa spietatezza le valsero il soprannome di " La Furia".
La sua abnegazione maniacale all'eseguire e rieseguire movimenti di schivata e combinazioni di colpi, le salvarono la vita più volte, nelle pericolose missioni alle quali Vidiq la sottopose non appena ebbe raggiunto il grado di adepto. Appena sotto al costato reca ancora tre profondi graffi, inferti da un licantropo che le era stato chiesto di catturare. Sulla nuca un profondo taglio procuratosi nello scontro con due Gargoyle d'Ebano, scontro che la vide sopravvivere benché priva di sensi dopo un'accesa colluttazione grazie anche al supporto del suo maestro Vidiq. Quel giorno la fortuna l'assistette, visto che di solito veniva inviata in missione solitarie, quella volta probabilmente la saggezza del suo mentore fu profetica, visto che la volle accompagnare. Altre due cicatrici ricordano al giovane monaco quanto sia labile e sottile il limite tra la vita e la morte, una bruciatura sulla mano sinistra regalo di un mago impazzito che le fu commissionato di eliminare, ed in fine il gelido morso, sul polpaccio destro, di quello che era considerato il lupo più pericoloso di Barovia, la Dama Bianca, che ebbe la sfortuna di incrociare di ritorno da una missione. 
Con il passare degli anni, Mira acquisì uno status di veterano all'interno della Falange, ed in un certo modo una certa rispettabilità, se non per la sua persona almeno per le sue abilità. Lavorare per loro aveva anche i suoi vantaggi, non le è mai mancato nulla e le garantisce un ostile di vita agiato, benché gli adepti non venissero pagati. Per Mira il denaro era un semplice mezzo per ottenere, senza fatica quello che altrimenti avrebbe ottenuto con la forza.

Non vi era posto nel quale avesse paura di andare, non c'era in effetti qualcosa che la spaventasse, come si può spaventare qualcuno che porta la paura dentro di se.




Il Marchio





A sud del fiume Luna, nelle fertili e popolose terre un tempo appartenute al ricco Ducato di Nharov Gundar, sorgono i borghi di Teufeldorf e Zeidenburg.
Entrambi i borghi sono importanti snodi politici e commerciali, ineguagliati in tutta Barovia per estensione e densità di popolazione.
Nei bassifondi e stretti vicoli, abitati dalle classi meno abbienti, iniziò ad apparire su muri, porte o inciso a sangue su vittime di omicidio un simbolo fino ad allora ignoto.
Tra gli oppressi Gundarakiti divenne emblema di Rivalsa.
Tra le nobili famiglie Baroviane iniziò ad aleggiare timore di Rivoluzione.

by Miscuglio

venerdì 20 febbraio 2015

Verso la Radura

Con il cuore listato a lutto per la morte di Bodo e l'animo ancora in subbuglio, io Lukan ed Andrej siamo arrivati a Uselix guidati da Lev. Siamo giunti qui più per inerzia che per reale convincimento, disorientati e non pienamente consci dei nostri obiettivi, scossi nel profondo dai recenti avvenimenti. Qui ci è venuta in aiuto Hala, come ogni volta che ne ho avuto bisogno nella mia vita o che ho iniziato a dubitare del mio percorso. L'aiuto è arrivato sotto forma di questa donna misteriosa, di nome Mira, che ci ha raggiunti nella locanda. Ci ha riconosciuti e si è presentata, mostrandoci un tatuaggio uguale al nostro, raccontandoci la nostra storia recente. Riuscii a stento a trattenere la felicità davanti a quella donna sconosciuta sino a pochi minuti prima: la storia che ci stava raccontando colmava alcune nostre amnesie ed era assolutamente coerente con i nostri ricordi e con i nostri movimenti recenti. Non poteva che essere così visto che il il Maestro Sephir l'ha mandata a cercarci, per ricondurci a lui nella tanto agognata Radura dei sogni Infranti.
Prima di farci guidare da Mira al punto di rendez-vous abbiamo comunque fatto tappa al Collegio, per non rimanere con dubbi o questioni in sospeso non sperando di trovare chissà che.

Invece vi abbiamo trovato Martha, sotto la vigile guardia di due Gargolle d'ebano. La ragazza ci ha sussurrato con un incanto di essere loro prigioniera e ci ha chiesto di liberarla. Dopo un breve ma feroce scontro abbiamo sconfitto le due immonde creature ed abbiamo riabbracciato Martha increduli. Non avremmo mai pensato di reincontrarla, difatti poco a poco il dubbio ed il sospetto hanno scalzato la nostra felicità iniziale.
La ragazza stessa ci confessa di far parte di un piano del Conte: deve portarlo da chi ci ha apposto il marchio, ovvero dal Maestro Sephir. Martha sebbene sia stata morsa dal Conte, confermando i sospetti sulla sua reale natura di vampiro, non sembra essere soggiogata a lui in alcun modo. Almeno per quello che le mie capacità mi permettono di indagare al momento. Però Von Zarovich sembra aver lasciato un ricordo su Martha, ben più profondo dei segni del morso sul collo: un debole aura di magia nera proviene dal petto di Martha, proprio vicino al suo cuore. Lei non ha ricordo di nulla, ma mi ha mostrato una cicatrice sotto il costato che non aveva prima di arrivare al Castello.  Martha non vuole mettere in pericolo ne noi ne il Maestro Sephir ma corriamo comunque il rischio di portarla al rendez-vous con noi, sperando li di riuscire a rimuovere la fonte che irradia l'aura malvagia.

Il viaggio scorre relativamente tranquillo scosso solo all'inizio dalla pedanteria di Mircej nei confronti di Martha, che pure ha intercesso per lui ed Astrid insieme a Mira, convincendoci a farli venire con noi. Per evitare ulteriori discussioni il resto del viaggio proseguì prevalentemente in silenzio. Ne approfittai per far sedimentare le emozioni che avevano affollato il mio animo: la morte di Bogdan, l'aspro confronto con Mircej, il ritrovamento di Martha e la notizia che presto avremmo raggiunto la Radura. Questo concentrato di avvenimenti suscitava in me sentimenti contrastanti: tristezza, gioia, sospetto, attesa, ansia, trepidazione.

Il viaggio e l'attesa nella torre, ospiti di Sava, sono serviti a rielaborare queste emozioni e ritrovare un punto di vista più razionale. L'obiettivo primario ora è liberare Martha dalla maledizione inflittale dal Conte: si è affidata a me, non posso deluderla, non posso permettermi di perdere un altro compagno, non me lo perdonerei mai. La via sarà stretta, pericolosa e dolorosa per Martha, ma la Dea veglierà su di lei e sulla mia mano. La libererò da questo giogo maledetto che le è stato inflitto così potrà ricongiungersi con noi nel nostro cammino verso la Radura dei Sogni Infranti, verso il mio sogno.
I cinguettii di Tweestle annunciano l'arrivo del mio amico Lucius, sarà lui a guidarci per quest'ultimo tratto: ha parlato di una specie porta da aprire, lo ha chiamato il Portale delle Ombre. Prima di incamminarci mi faró spiegare bene cosa ci aspetta. Lo abbiamo messo a parte delle situazioni di Martha e Mircej. Ci aiuterà per quanto lui possibile con Martha ed ha confermato la versione di Mira su Mircej, rafforzandola: Lucius si fida di Lavinia pertanto se la Cieca vuole che Mircej ci segua vuol dire che ci aiuterà, prima o poi. Sono ben disposto a collaborare con Mircej se questo mi aiuterà a raggiugnere il luogo più sacro del mondo che ho sempre solo sognato, sperando un giorno di essere degno di questo immenso onore. Sono pronto a qualsiasi cosa, non ci saranno porte, ombre o altri ostacoli che potranno impedirmi di calpestare con le mie umili spoglie mortali il terreno sacro della Radura. La Dea é con me, sto arrivando!

lunedì 16 febbraio 2015

Il Monastero

Da quanto aveva varcato la soglia di quel tempio, Andrej era stato travolto da un turbine di attività che avevano quasi nascosto, alla sua mente, quanto di brutto gli era successo fino a quel momento. Come a volerlo sempre con la mente e il corpo occupati il Monach Borja, scelto direttamente da Valerian Reinev, aveva iniziato a seguire con particolare attenzione Andrej, dandogli ulteriori compiti quando a riposo, rimarcando ogni gesto e punendo laddove necessario ogni errore.

Il Monastero dello Scudo dell'Alba non è, infatti, un luogo per deboli, qui sono forgiati i migliori guerrieri del Mattino, coloro che un giorno riceveranno i doni per la vendetta della Luce.
Da tutti i templi del Signore del Mattino, infatti, ogni anno, sono scelti 10 bambini di 6 anni che hanno dimostrato le caratteristiche: fisiche, mentali e di devozione necessarie per diventare i Monach Guerrieri, seguendo l’esempio de “Il Mentore”, il primo Campione dell’Alba. Questi pochi selezionati vengono inviati al Monastero dello Scudo dell'Alba per ricevere la giusta educazione.

Arrivato già grande, ad Andrej non fu facile inserirsi nelle gerarchie e fra i giovani monaci, venne immediatamente isolato poiché molto indietro dal punto di vista culturale; sapendo leggere a malapena aveva difficoltà ne seguire le lezioni e gli insegnamenti teologici. La sua fortuna però fu la propria forza, Andrej infatti staccava già parecchi compagni per stazza, costituzione e tecnica di combattimento, sopratutto con l'arma sacra del Signore del Mattino: la lancia. Il Signore del Mattino gli aveva dato una valida merce di scambio e Andrej era molto capace nello barattare una lezione di combattimento con qualcuno che scriveva le sue orazioni oppure per non andarci con la mano troppo pesante in un combattimento di allenamento.

Quanto venne scoperto, Andrej fu punito molto duramente ma non espulso. C'era qualcosa che impediva di allontanarlo dal Monastero, c'era qualcosa di più che neanche lui comprendeva. Tuttavia vista l'impossibilità di espellerlo, i Monach decisero che Andrej doveva imparare l'umiltà e il rispetto tanto dell'amico quanto dell'avversario e iniziarono a farlo allenare, all'alba dei suoi 13 anni, con i Monach più anziani Questo gli portò non poche cicatrici, ma come dice il detto: "Ciò che non uccide, fortifica" e le sue capacità continuavano a migliorare, a differenza della disciplina.

Ai 14 anni,momento dell'Iniziazione, Andrej peccava di presunzione e di mancanza di disciplina. Fu però l'Iniziazione ha cambiarlo e fargli scoprire la vera via della fede. Ai giovani Adepti infatti veniva data una lancia, simbolo della lotta e della fede nella Luce, e li si lasciava alle pendici della montagna in piena notte. Compito dell'Adepto è quello di rientrare al Monastero, il cui simbolo viene illuminato per l'occasione da 1000 candele, che come la fede vanno curate e mantenute sempre accese, per poter brillare come un faro nel cuore di Barovia.

Quella serata era iniziata nel peggiore dei modi, con nubi cariche di pioggia che balenavano all'orizzonte. Il giovane Andrej e il Monach Borja, suo accompagnatore, erano arrivati alla base della montagna già zuppi. Andrej fu lasciato lì ad attendere l'arrivo della notte dappresso ad un piccolo altare votivo; all'ultimo raggio di luce sarebbe dovuto partire per scalare la montagna. La notte fu un tormento, non solo nel fisico per le ferite nei due scontri che Andrej dovette affrontare con animali e bestie feroci, ma sopratutto per la mente.

La notte e la tempesta possono giocare brutti scherzi. Andrej si sentì quasi impazzire quando fra un bagliore illuminò una figura altera e ammantata di nero che tendeva le sue grinfie su di lui. Il terrore pervase ogni cosa... Le orecchie fischiavano... La vista era annebbiata e il cuore batteva cosi forte da sembrare un minatore che scava la sua via di fuga attraverso il petto.

Inizio a correre per il bosco...
i rami laceravano i vestiti e la pelle...
la pioggia e la grandine sferzavano il volto rigato dalla lacrime...
quando cadde a terra, in preda all'orrore sembrava che ogni cosa fosse perduta....
credeva di rimanere lì per sempre...
...eppure con gli occhi chiusi, riuscì a percepire il calore delle mille candele del simbolo dello Scudo del Mattino.
Ne vide la calda luce che splendeva sul monte.

E lì la sua mente comprese la più grande rivelazione: che per quanto buia possa essere la notte, piena di orrore, arriverà sempre la calda luce del giorno a rischiararla e a dissipare ogni timore.
Da quel momento l'ardore della Fede brillò dentro Andrej. Spinto da questa forza e dalla sua prestanza Andrej si dedicò anima o corpo agli allenamenti e all'istruzione, desideroso soltanto di diventare un baluardo, diventare uno Svaty Mstitel (Santo Vendicatore), il Campione dell’Alba.

giovedì 5 febbraio 2015

Il Rapimento





Si era trattata di un'imperdonabile leggerezza.
I vistani la seguivano da prima che entrasse nel tempio e non aspettavano altro che l'occasione per avvicinarla da sola, senza la protezione del suo accompagnatore.
Anche il loro approccio era perfettamente prevedibile: l'oscurità della sera e l'indifferenza dei baroviani erano lì a proteggerli, in due le venivano incontro mentre un terzo la attendeva nell'ombra, eppure c'era cascata in pieno.
La ragazza non fece in tempo a formulare il suo incanto per svanire da davanti ai loro occhi. Avrebbe dovuto farlo prima, appena uscita dal tempio, ma aveva ancora paura a rivelare la sua natura persino ai suoi compagni di viaggio.
Venne colpita alle spalle e sentì subito le gambe cederle, le forze venirle meno e perse i sensi.

Rinvenne all'interno di un vardo in movimento, ricoperto su tutte le pareti da drappi colorati, abbastanza spessi da oscurare qualsiasi fonte di luce esterna, relegando ad un piccolo lume ad olio oscillante il compito di rendere appena visibile l'ambiente circostante.
Era adagiata su una scomoda branda, imbavagliata e legata mani e piedi. Uno dei suoi rapitori era seduto di fronte a lei, la fissava senza realmente osservarla, il suo sguardo perso da qualche parte tra i ricordi e l'immaginazione. Erano Zarovan.
La testa le doleva ancora alla base della nuca, ma la debolezza che le attanagliava le membra non era dovuta a quello: era stata drogata, non riusciva a pensare nitidamente e quasi non sentiva le gambe, figuriamoci cercare di sollevarsi o ribellarsi.
Il vistani sorrise mostrando un vistoso quanto opaco dente d'oro.

Le somministrarono la stessa sostanza altre due volte durante il viaggio, provò a sputarla ma persino la lingua era intorpidita ed il compito più arduo del suo rapitore fu il sincerarsi che non soffocasse.
Quando finalmente il vardo si fermò, la tenda rossa venne spostata e la piccola porta sul retro aperta. L'ambiente angusto venne inondato da luci abbaglianti e suoni di festa: tamburelli, liuti e flauti. Faticò a discernere se fossero reali o frutto della sua immaginazione distorta dalla droga.
Era quasi il tramonto e le acque della cascata di Tser riflettevano un cupo arancione schiantandosi fragorosamente nello stagno sottostante.
La sagoma del Castello incombeva inquietante sulle pareti aguzze e frastagliate del Passo di Svalich.

Un numero imprecisato di donne, sia bambine che fanciulle che rugose anziane, si affaccendarono attorno a lei lavandole il viso con panni umidi, spogliandola dei suoi abiti da viaggio sporchi e malconci e ricoprendola di nuovo in caldi, profumati e colorati tessuti vistani.
Le raccolsero i capelli e detersero la fronte, li fermarono con un fazzoletto, coprendole la fronte ed annodandolo sotto la nuca.
Rimase in balia del delirio e di decine di mani che continuavano a girarla, spostarla, spingerla e trascinarla.

Quando le luci e le ballate svanirono anche la trottola si fermò.
La testa continuava a pulsare e attorno le sagome dei colorati vistani avevano lasciato spazio alle tetre dimore degli abitanti del villaggio di Barovia, barricati dietro pesanti scuri già dal calar del sole.
La carrozza nel centro della piazza era lì per lei. Due maestosi destrieri dagli occhi neri come pece erano gli unici a condurla, nessun postiglione, nessun paggio. La porta si aprì per lei e l'invito silenzioso ad accomodarsi fu, nello stato mentale in cui si trovava, semplicemente irresistibile.
Sedette e le palpebre pesanti si chiusero mentre la carrozza prese la via per il fianco del monte.

Non passarono che pochi minuti quando rinvenne. Il mezzo era ancora in movimento, spostando la tenda vide dall'alto il cupo splendore del passo di Svalich, attraversando su uno stretto e lungo ponte di pietra le cascate di Tser, affacciata su una valle completamente sommersa dalla nebbia, con le poche luci del villaggio di Barovia e le molte del campo Zarovan a far capolino nella foschia.
Svanì tutto all'improvviso quando gli zoccoli dei destrieri iniziarono a calpestare il legno di un massiccio ponte levatoio ed i bastioni del castello avvolsero la carrozza facendola sparire dal resto del mondo.

La ragazza provò ad aprire lo sportello prima che fosse troppo tardi, ma una forza oscura lo bloccava e non poté nulla fino a quando il viaggio non fu concluso.
La testa le pulsava ancora, le membra deboli per lo stordimento e la gola arsa dalla sete; i colori vivaci del Campo di Tser avevano lasciato il posto ad un grigio cortile interno, circondato da muri invalicabili di pietra scura.
L'unica illuminazione proveniva dalla luna ormai quasi piena che appariva a tratti tra le nubi e da un paio di torce lasciate accese all'ingresso del mastio, ad indicarle la via. Lo sportello si aprì senza che nessuno fosse fuori ad attenderla, i destrieri immobili a capo chino, come se avessero improvvisamente esaurito ogni energia vitale.
Martha roteò lentamente su stessa e alzò lo sguardo, in cerca di altre vie d'uscita. il ponte levatoio cigolò e finì di chiudersi fragorosamente alle sue spalle, sagome terrificanti di immobili guardiani di pietra sembravano osservarla dalle merlature: orribili gargolle dalla fronte cornuta.
Tutto appariva vuoto e fermo, eppure la ragazza percepiva la presenza di infinite creature, tante quante erano le guglie e gli anfratti oscuri della colossale fortezza. Percepiva su di se lo sguardo di mille occhi malvagi e si sentì nuda, fragile, impotente.
Le gambe le cedettero nuovamente e cadde in ginocchio.

Pensò di rimanere ferma lì, o trovare di nuovo rifugio nella carrozza. Era terrorizzata, la spaventava ancor di più il fatto che nulla stesse accadendo, come se il male in agguato non aspettasse che una sua mossa per manifestarsi e quindi preferiva restare ferma, inerme, cercando di calmarsi, di raccogliere le idee, detestandosi per come era finita in quella situazione, cercando di scardinare il portone immaginario che la separava dal resto dei suoi ricordi e che forse avrebbe potuto dare un senso a tutto ciò che ora le capitava.
Si portò le mani alla testa ed urlò all'aria fredda della notte tutta la sua frustrazione.

Come a rispondere al richiamo i portoni del mastio si aprirono, di nuovo senza che nessuno fosse lì, mostrando un corridoio illuminato e lussuosamente arredato, percorso fino in fondo da un lungo tappeto viola e nero.
Martha avvertiva il tepore provenire dall'interno della fortezza, le fiamme calde delle torce la invitavano ad avvicinarsi, la stessa sensazione che l'aveva portata ad entrare nella carrozza, lo stesso richiamo innaturale e ancora, nonostante la sua mente fosse stavolta sgombra, parimenti irresistibile.

Attraversò l'ampio corridoio, dipinti ed armature, arazzi e stendardi. Tutto immobile, tutto freddo, la temperatura interna del castello non era più alta di quella all'esterno, sul gelido pendio del monte, ma quell'inspiegabile calore continuava ad avvolgerla, a trainarla e lei, incantata, attraversò inseguendolo corridoi e rampe di scale, in cui le torce si accendevano al suo passaggio e spegnevano di nuovo alle sue spalle, facendo sprofondare nell'oscurità il sentiero da lei percorso.
Giunse infine nell'ampia sala da pranzo in cui il suo ospite la attendeva, seduto all'estremità opposta di un tavolo che poteva ospitare dozzine di invitati a cui erano però accostati soltanto due scranni sugli opposti lati corti.
La tavola era apparecchiata, servizi pregiatissimi in oro e cristallo, dovevano valere una fortuna, eppure nessuna pietanza era stata preparata, nessun maggiordomo era lì ad attenderla. La stanza era vasta e fredda ma anche vuota, poteva intuirlo nonostante il buio circostante dato che l'illuminazione era talmente scarsa da abbracciare solamente l'area appena circostante al tavolo.


Il calore, l'unico vero conforto in quel luogo terrificante, proveniva dall'uomo seduto all'altra estremità della tavolata. Strano a dirsi perché nel profondo dell'animo la ragazza poteva chiaramente avvertire che tutto il castello, tutto l'orrore che provava e tutto ciò che le era successo in passato e sarebbe presto accaduto dipendevano esclusivamente da quella figura: il Conte Strahd Von Zarovich.
Illuminato a malapena dalla fioca luce di un candeliere il Signore di Barovia sedeva impassibile carezzando con le dita affusolate un massiccio calice di vino. Gli occhi scuri, magnetici, incorniciati da folte sopracciglia brune, erano fissi sulla sua ospite, incapace a sua volta di distogliere lo sguardo.
La fece sedere, perché era ormai assodato che lei non potesse far nulla che non fosse la volontà del suo ospite, e poi rimase a fissarla in silenzio per lunghi istanti.

Martha voleva aprir bocca, voleva parlare, forse gridare, forse implorare pietà oppure porre mille domande sui perché che da troppo tempo continuavano a tormentarla, come se l'uomo davanti a lei fosse un dio, in grado di fornirle le risposte, fornirle una causa per ogni evento che aveva tormentato la sua esistenza fin dalla nascita ed in grado di renderla di nuovo cenere in un batter d'occhio.
Il cuore le balzò in gola quando il Conte parlò:
"Mi sembra ovvio che ci sia stato un malinteso."
La voce era calda e profonda, avrebbe potuto definirla persino affascinante se tutto il contesto non suggerisse invece soltanto solitudine e disperazione.
"Eppure la raunie ha insistito perché tu fossi qui ed ora ne comprendo il motivo."
Il Conte si alzò, rivelando una statura sopra la media e la corporatura massiccia di un condottiero, avanzò lungo il tavolo sfilandosi dalle dita un raffinato guanto di seta nera.
Un osservatore esterno avrebbe detto che la ragazza sembrava completamente ammaliata e concentrata su quella figura, ma non avrebbe saputo ascoltare le grida della sua anima terrorizzata ad ogni passo che la rendeva più vicina.
Le dita nude del Signore di Barovia erano fredde come metallo, carezzarono delicatamente il volto di Martha per scivolarle lungo il collo lasciato scoperto dagli abiti vistani e poi giù fino all'orlo del vestito. La ragazza chiuse gli occhi umidi di lacrime mentre il Conte le scopriva la spalla, rivelando il misterioso marchio che magicamente le era stato impresso.
"Ed ecco ciò che desta il mio interesse... ma ne discuteremo dopo cena."

Un istante dopo la ragazza venne violentemente pervasa dallo stesso calore che fino ad un istante prima percepiva provenire dal suo ospite, il suo corpo si sollevò in preda ad uno spasmo improvviso mentre canini sottili ed affilati come lame penetravano nella tenera carne del suo collo iniziando a risucchiarne sangue e linfa vitale.
La paura svanì insieme al dolore, la coscienza si perse in una dolce assuefazione mentre i sensi abbandonarono Martha, che finì esanime per abbandonarsi tra le braccia del Conte.