martedì 29 novembre 2016

Errando per Laitia - Episodio 9

De li Affamati, li Cavalieri et li Furfanti

Ne lo buio de lo magazzino si propagava irresistibile un buon odorino di salumi, caciotte, pagnotte et ogni altro bene che le Divinità Pristine vollero concedere allo omo di Rarte per allietare la sua triste et dolorosa esistenza.
Tra botti ricolme di vino et scaffali di conserve li nostri eroi non seppero resistere: Frandonato forse non si aspettava di ricever l'avallo de lo semper morigerato Magistro Alburno, ma non ebbe esitazione alcuna et in breve i tre ebber a saziarsi con provvigioni che sarebber bastate ad uno singolo omo per più di una settimana.
Così, con la panza ricolma di piacere et energia, li compari si appostarono in attesa de lo furfante, con occhio et orecchio ben concentrato verso la porta su lo retro de la stanza.
Invero trascorsero solamente poche clessidre et a destarli da uno minimo torpore cui si eran abbandonati non fu il sottile scatto d'una serratura, ma lo pesante sollevarsi d'una botola... Sorpresi più che mai li tre si affrettaron a far luce, giusto in tempo per veder sorgere, da tutt'altro punto de la stanza, la grossa e pelosa testa d'una immensa pantegana!

"L'Omo Topo!" Esclamaron.
Lo Magistro, forse stordito da lo troppo cibo cui non era abituato, si lasciò cader di mano l'intruglio con lo quale avea intenzione di fermare il malfattore et la nube che ne scaturì diede magicamente vita ad un galletto senza testa, appeso a le travi del soffitto, che iniziò a dimenarsi come un non-morto indemoniato.
Reazione più ferma ebbero per fortuna li suoi compari, et mentre lo Peregrino Scarlatto dimostrò di aver realmente appreso le vie dell'arcano formulando uno incanto protettivo a le tonanti parole di "Deretanum Protecto!", lo belligeroso Frandonato non esitò ad alzare lo suo maglio per poi calarlo pesantemente su la capa appena sporta de la bestia disumana.
Ne seguì uno clangore forte et rimbombante, de metallo contro metallo et la bestia ne fu talmente sorpresa et stordita che fece subito per difendersi et fuggir via, indietro ne lo cunicolo da cui era sbucata.

Ripresisi da la inaspettata intrusione et concordato che lo Omo Topo non fosse uno vero mannaro ma piuttosto uno furbacchione camuffato da gigantesco roditore, Frandonato insistette per partir subito a lo inseguimento et li altri due si fecer convincer, ne lo mezzo de la notte, a dargli la caccia ne lo fitto de lo bosco in cui lo cunicolo segreto conduceva.
Quella notte Alburno ebbe sempre modo di raccontarla come lunga et confusa, forse a causa de li fumi di Imago Mentis cui attinse copiosamente per seguir le tracce ne lo fango et le paludi et che a la fine, lo portarono a smarrirsi.
Sebbene lo inseguimento si rivelò inizialmente fallimentare, li tre eroi capitaron fortuitamente tra le rovine, immerse ne la vegetazione, di uno antico borgo, intuendo finalmente la posizione di Castel Vero, ove sarebbero tornati di lì a pochi girodì. Successivamente, smarrita la pista de lo Omo Topo, giunsero presso la capanna di uno piccolo omuncolo timoroso che avea ormai perso la brocca quasi del tutto, ma che riusciron a convincere a far loro da guida, giacché soli avean ormai abbandonato ogni speranza di orientarsi.
Il folle ma gentil Marziano, le cui uniche compagne eran ranocchie, alcune delle quali ormai già inquietantemente trapassate, seppe condurli ne lo bosco fino al punto in cui lo presunto mostro avea fatto tana, ma non volle proseguir oltre et corse via lasciando che ad avvicinarsi fosser solo i tre spavaldi, resi ancor più temerari da l'abuso del Cordial di Gelatodia de lo Peregrino, che era servito a rincuorarli durante la lunga e perigliosa escursione notturna.

In una radura v'era uno grosso olmo, tanto che lo suo immenso tronco nascondea l'ingresso ad una grotta sotterranea, sbarrata però da un pesante macigno che li tre dovetter faticar non poco per spostar quel tanto che bastava a garantir loro lo passaggio.
Mosso infine lo roccione, si ritrovaron ne lo spartano covo de la bestia, che di bestiale non avea poi così tanto: sembrava più la dimora di uno selvaggio.
Frandonato guidava lo gruppo, sembrava non esserci niuno, quando da le radici sul soffitto, con gran balzo et grosso tonfo, balzo a terra lo Omo Topo, ascia in mano, pronto a difender lo suo territorio a lo fianco di alcuni rattoni che attaccaron inferociti.
Li eroi si difeser come poterono ma l'omone era invero dotato di straordinaria forza et brutalità: Frandonato se la vide brutta, ferito malamente da uno fendente inarrestabile, et pure Alburno, dopo aver fatto arrosto et messo in fuga le pantegane con lo suo intruglio al mentolo letalmente infiammabile, subì un colpo furioso et si finse morto. Lo Peregrino riuscì a malapena a scalfire il bestione, rivelatosi null'altro di uno bruto vestito di pellicce et con uno pesante elmo metallico che potea ricordar lo cranio di uno topo, ma che per fortuna de li nostri eroi non avea intenzione a farli fuori et al primo graffio subito si guadagnò la via di fuga, lasciando i tre a leccarsi le ferite.
Lo Magistro non mancò mai occasione di delineare quanto le abilità sue et de li suoi compari fosser molteplici et complementari. Il ricucir le ferite est sicuramente ambito de lo eclettico alchimista che con filtri, garze et bende rimise a posto se stesso et il vigoroso frate.
Preferiron comunque dileguarsi prima che lo padrone di casa tornasse ancor più inferocito, notando accortamente che ne la tana non v'erano tutte le cibarie di cui Norberto denunziava la scomparsa: l'Omo Topo era si ladro, ma solo de la poca roba necessaria a lo suo sostentamento.
Li furti che minacciavan la Fiera di Borgoratto dovean esser frutto di altra, macchinosa et malvagia cospirazione.

Di ritorno alla locanda di Puccina, dopo l'estenuante nottata attraverso lo bosco et la palude, Alburno et li suoi compari vennero accolti da uno avventore assai particolare: l'omo, di origine iperborea, avea capelli lunghi, lisci et scuri, et un fiero portamento marziale reso ancor più evidente da lo equipaggiamento da cavaliero di cui vestiva, unico suo bene. Portava seco uno falcone da caccia, di nome Ombra, et rispondea a lo nome di Galvano, Cavaliere de lo Equilibrio.
Scongiurata da subito la possibilità che fosse lì per saccagnar di botte lo Peregrino per qualche dama offesa et abbandonata, i tre deciser che fosse degno d'esser ascoltato, dato che dicea di conoscerli et di aver esser tormentato in sogno da la loro medesima visione.
Galvano parlò de la figura di grigio ammantata et d'oro bordata, disse di percepire la importanza che lo gruppo riuscisse a trovarlo, perché in egli poteva esserci risposta ad uno grande male incombente et, sopra di ogni cosa, a lo ritrovamento de la mitica Spada de lo Equilibrio un tempo appartenuta a li più grandi Imperatori di Maro.
Lo Magistro ascoltò interessato, anche se non del tutto convinto, ma era vero che quel cavaliere sembrava esser familiare et d'istinto degno di fiducia. Decisero quindi di condividere con lui le informazioni in loro possesso et lo scopo de la loro trasferta in quel di Borgoratto, di contro, Galvano, notò una cosa che loro era sfuggita su la pergamena in possesso di Frandonato: la firma di un tal Magistro S. che subito rintoccò familiare ne le loro menti.
La destinazione sembrava chiara, le catacombe sotto Castel Vero sarebbero state lo punto di partenza per la lor ricerca, ma prima li eroi voller mantenere la parola data et riferire alla consulta cittadina de le lor scoperte.

L'onesto Norberto li accolse ne la sua fattoria, a qualche migliaio di cubiti da lo paese. Fu lieto di ascoltare le novità et la conferma che lo Omo Topo fosse et restasse sol leggenda. Eppure ebbe anche da rammaricarsi de lo fatto che lo vero sottrattore di cibarie non fosse stato ancor stanato, et ancor meno tollerò che venisser mosse accuse su lo stimato Balestrino in base a pettegolezzi che li tre sconosciuti, per quanto affidabili, giuravan di aver udito.
Decisi quindi a procurarsi prove tangibili et recuperar la refurtiva, tornarono a Borgoratto, ove anche Galvano riposava, per pungolar li due mercanti assai sospetti, ignari de la sorpresa che di lì a poco li attendeva.

Nel mezzo del cammin et de lo girodì, lo Magistro, a la guida de lo suo carretto, vide alzarsi un polverone et di lì a pochi secondi ben quattro uomini a cavallo piombar loro addosso ad armi sguainate!
Frandonato si frappose, temerario come suo solito, affrontando quel che sembrava esser lo loro condottiero, ben armato et corazzato in sella ad uno destriero. Senza poter parlamentare iniziaron a volar dardi, fendenti et mazzate; lo carretto usato come riparo da quadrelli di balestra et grandi roncolate date et subite da entrambe le parti finché non giunse alla ribalta lo Cavalier Galvano che in poche mosse stese li marrani et si lanciò a lo inseguimento de lo suo pari, che pavidamente scelse lo disonore de la ritirata a l'accettazione de la sconfitta.
Quando li due al galoppo spariron tra le frasche, li tre rimasti poteron leccarsi le ferite et rattoppar uno nemico sopravvissuto, che confessò d'esser mercenario a buon mercato assoldato per accoppare uno frate et uno musico (Alburno ebbe da rallegrarsi di non esser ne l'elenco).
Spogliatolo d'ogni avere, quanto meno per lo disturbo, lo lasciaron andar via con le pive ne lo sacco et rientraron in locanda chiedendosi che fine avesse fatto lo lor soccorritore.

Quella sera trascorse in abbuffate et riposo per Frandonato, tra fumi colorati et filtri sperimentali per lo Magistro, intenzionato a rimpinguar le proprie scorte, et accorte investigazioni di Tristano, determinato più che mai a smascherar li mercanti truffatori.
Lo buon Peregrino ebbe anche fortuna et li seguì fuori città, ove, tramutatosi in gatto prima et in faggiano poi a lo scandir di uno imperioso "Animalis Mutanda!", riuscì ad origliare una conversazione interessante: incontratisi ne lo mulino ad acqua, con il sospetto Balestrino, essi preser accordi per una ultima consegna ne lo giorno seguente et poi si sarebber dileguati.

Lo Peregrino tornò a sera tarda, Galvano era già rientrato senza esser riuscito ne l'impresa di inseguir lo suo nemico, che però avea avuto l'ardire di riconoscere in Tarquinio, un tempo Cavaliere de lo Equilibrio suo pari ma oramai rinnegato da lo ordine et da le buone maniere, visto come s'era presentato brandendo la sua spada. Disse che probabilmente era lì per impedir loro che trovasser lo misterioso Magistro S. et questo non poteva che sottolineare ancor di più la importanza de la loro cerca.
Ciononostante la promessa fatta a li villici di Borgoratto avea ancora priorità per li altri eroi che, sapute le scoperte di Tristano, deciser di tenere d'occhio i due mercanti et seguirli l'indomani per poterli coglier con le mani su la refurtiva.

La notte passò lesta et l'alba giunse presto. Li nostri eroi s'accorser un po' tardi de la scomparsa dei due mariuoli ma lesti saltaron in sella e riuscirono a raggiungerli prima che fosser troppo lontani.
Colti sul più bello i due tentarono una breve fuga, prima di abbandonare muli et maltolto et svanir ne la boscaglia. Li eroi non li inseguirono, avevan salvato le cibarie et con esse la fiera di paese, restava solo da incastrare Balestrino.
Per la consulta cittadina et Norberto, abile calcolatore, fu facile far la conta de li beni trafugati et capir che qualche cosa era sparito durante la notte appena trascorsa. Li tonti figli del mugnaio, lasciati di guardia, vennero quindi chiamati a testimoniare et facilmente indotti a tradirsi l'un l'altro et confessar li crimini de lo loro genitore.
L'impresa eroica fu allor completa, forse non all'altezza de la sconfitta de la Lupa Abba ma portata ancor più in alto da le note de lo Peregrino Scarlatto, che consacrò con una magnifica ballata durante la grande Fiera di Borgoratto lo suo abile trio, oramai divenuto uno quartetto, portando onori et fama che li mercanti itineranti contribuirono a sparger per buona parte di Laitia nei girodì a seguire.

Et fu così che per la prima volta anche io, che ho l'onore di trascriver le sue memorie, ebbi modo di sentir parlare de lo Magistro, l'Aureo Alburno, come ne li suoi momenti di maggiore vanità amava appellarsi. Et quelli di cui la prossima volta andrò a narrarvi saranno li incredibili eventi accaduti ne le dimenticate sale sotterranee de la abbandonata rocca di Castel Vero.

giovedì 17 novembre 2016

Errando per Laitia - Episodio 8

De lo Santo Maglio, la Pietra su lo Palo et lo Zufolo Incantato

Lo Magistro, dopo mesi di totale devotione a lo studio et perfetionamento de la Scientia Arcana, ebbe infine modo di veder riconosciuti li propri sforzi.
Memorizzata la formula de la Regola Aurea, initialmente concepita da Ottavianus Firminus, ma realizzata solo et esclusivamente gratie a la collaborazione con Alburno, et manufatto lo suo primo prototipo di Pietra Filosofale, o Crisopea, ancora vacua d'ogni potere a causa de la mancanza di un ultimo ingrediente, lo Magistro capì che li tempi de la sua permanenza in quel di Zena eran ufficialmente volti al termine.

Quasi in concomitanza, come se divine entità intendessero de la importanza de le sue scoperte et volessero lasciarlo concludere, lo strano sogno iniziò a presentarsi, ne lo corso de le notti, sempre con maggior ricorrenza.
La diafana figura di grigio ammantata e d'oro merlata appariva indistinguibile in una antica grotta abbandonata. Li suoi tratti eran poco distinguibili ma decisamente familiari et la sua voce gentile appellava: "Venite! Venite meco!"
Specie quel verbo, plurale, destò curiosità in Alburno che ne li suoi sogni soleva viaggiar solo... e manco a farlo apposta, la mattina successiva, ne la piazza antistante lo laboratorio de lo Magister Firminus, apparve a predicar menate come suo solito una vecchia conoscenza a lungo attesa: lo virile Frandonato.

Lo frate poco pio sembrava aver finalmente trovato la sua via. Vigoroso et pasciuto come se nemmeno uno giorno fosse passato da la sua partenza, indossava sempre la stessa tunica, forse neppur lavata da allora, che astutamente nascondeva la fitta maglia metallica da battaglia. Predicava dinnanzi uno piccolo altarino, null'altro che una croce tau alta più di tre cubiti che opportunamente ribaltata et impugnata fungeva da grosso et pesante maglio da guerra. Raccoglieva offerte in un secchiello in terra, metallico ma di cuoio rivestito, null'altro che uno solido et pesante elmo.
Frandonato ebbe modo di spiegare al buon Alburno che ne li mesi passati si unì ad una compagnia mercenaria, portanto la Nova Fede in giro per la Laitia occidentale a suon di mazzate ne lo nome di Santa Starnazza.
Ciò che realmente destò l'attenzione de lo Magistro fu che lo suo compare ebbe in visione lo stesso sogno, anche se ne la sua versione la figura ammantata era donna, et forse pure di facili costumi. Alburno attribuì quella differenza di particolari a la perversione latente de lo frate et gli diede poco peso, ma insieme voller appurare se anche Tristano, fuggito da le guardie de lo Conte Gualfero di Epilorna in quel di Pelopia, avesse ricevuto lo medesimo presagio et così gli spediron una missiva.

Frandonato porto a la attentione de lo Magistro anche la pergamena che a lungo avea tenuto seco, lasciatagli in eredità da li ignari frati di uno de li monasteri in cui avea militato. Li antichi papiri descrivean un loco, in terre vicine geograficamente ma storicamente assai lontane, in cui uno tesoro era ancor sepolto et attendea l'avvento di un'anima coraggiosa, avventurosa et dalla incrollabile fede.
Riconoscendo in Frandonato sicuramente due delle tre virtù richieste Alburno decise che potea valer la pena di trovar codesto tesoro, tanto più che l'ingrediente mancante per la sua Crisopea l'avrebbe ottenuto solamente viaggiando.
Tosto preparò lo carretto, lo fido mulo Grullo et si commiatò con rimpianto da li suoi ospiti di Zena, lo Magister Ottavianus Firminus et li suoi stipendiati: lo scriba Alceste et lo soprammobile Fidenzo.

Lo Peregrino Scarlatto giunse poco prima de la partenza, arrivando con tale tempestività che non si potè far a meno di pensare che non vedesse l'ora di ricever notizie da li suoi compari; e disse d'esser mago.
Tristano era lo stesso, identico, esuberante, chiassoso fanfarone di prima. Si presentò intonando uno motivetto con lo zufolo, che avea sostituito la sua storica zampogna, et si dichiarò pronto a partire per nuove avventure. Sull'esser mago lo Magistro ebbe subito a dubitare, ma con suo grande stupore dovette presto ricredersi...

Ignorando momentaneamente li sogni che i tre compari avean condiviso, non avendo altri indizi, lasciata Zena, si diresser al confine con la Tauria, verso le pendici de li monti ove la antica pergamena de lo frate indicava esister un tempo il podere di un Pio Conte: la dimenticata landa di Castel Vero.
Le indicazioni esplicite parlavano di uno loco da cui initiare le ricerche: uno piccolo borgo noto per una grande fiera, appellato Borgoratto.

A lo intraprendente Alburno la destinazione et la lontananza de la meta importavan poco, se v'era di mezzo uno tesoro, avventura et ricchezze tanto meglio, ma lo suo vero scopo era coglier l'ultimo tassello, con l'avvento de le belle e soleggiate giornate di primavera, per la realizzazione de lo suo più magno experimento. La sua Crisopea era pronta ne la sua forma materiale: una pietra irregolare, poco meno grande di uno pugno, da lo colore paglierino pallido; quel che le mancava era una buona dose di energia naturale arcana, la più pura et potente che le Divinità Pristine avean partorito: la calda et eterna luce de lo Sole.
Così lo Magistro avea accroccato la sua pietra su la punta di una lunga pertica, ben fissata con lunghi intrecci ramati, et la tenea sempre in bella mostra su lo carretto, orientandola di volta in volta lungo il corso de lo girodì perché li raggi de lo fulgido astro potesser sempre giunger ad essa perpendicolari. Si trattava solo di attendere per assistere a lo prodigio.

Borgoratto era invero uno minuscolo paesino. Poche case et fattorie arroccate su di un colle a le pendici de li monti, lungo li confini di una vasta foresta et palude.
La modesta locanda era retta da una ligia vedova di nome Puccina et le due sguattere Lina et Pina. Ospitava come di consueto la consulta cittadina et un paio di mercanti itineranti.
La discussione de lo girodì verteva intorno la annuale fiera di paese, commemorativa de la cacciata de la iperborea Regina Pedoca et le sue orde, che rischiava di saltare a causa di ripetuti furti ne lo magazzino ove li solerti paesani accumulavan le libagioni da lo anno precedente.
Li più timorosi attribuivan la colpa a lo Omo Topo, figura storica che diede nome a lo abitato quando, rubando uno poco per volta tutte le provviste dell'invasore iperboreo, costrinse loro a la ritirata et rifocillò li assediati rintanati in Castel Vero.

Aguzzate le orecchie et colta al volo l'occasione, lo saggio Alburno convinse facile li suoi compagni a proporsi per indagar sui misteriosi accadimenti, guadagnandosi in avanzo la possibilità di dormir e mangiar a sbafo per qualche giorno et magari far le giuste domande per capire ove fosse situato lo loco descritto ne la pergamena di Frandonato.
Discussa la questione con lo capo de la consulta, tal Norberto, che ne la storia de lo Omo Topo proprio non credeva, l'avventuroso trio solerte si diresse ad ispezionar lo magazzino, pieno zeppo d'ogni cibaria et libagione, sorvegliato notte e dì da uno paio di nerboruti imbecilli bravi a dir "Nessuno Entra! Nessuno Esce!" quanto a russar di grosso durante li turni al chiar di luna.

E così, mentre lo scaltro Peregrino Scarlatto origliava in giro pel paese, scoprendo una probabile combutta tra li mercanti ospiti in locanda et Balestrino, lo fattore responsabile de lo magazzino, l'attento Alburno et lo fiero Frandonato scoprirono una via d'accesso ben nascosta sul retro dell'antico magazzino, ricavato invero da una antica torre risalente a li tempi de le invasioni iperboree, forse la stessa da cui l'Omo Topo avea rubato le provviste de la Regina Pedoca durante l'assedio di Castel Vero!

Scoperto lo modo in cui lo vile ladro trafugava il cibo nottetempo, l'astuto Magistro Alburno suggerì che lo modo migliore per acciuffarlo sarebbe stato coglierlo con le mani nel sacco.
Così, accertatisi che nessuno eccetto Norberto sapesse de lo loro piano, dopo il tramonto, i tre eroi si intrufolaron di nascosto ne lo magazzino in attesa de lo intruso...

Lo ricongiungimento de li "allegri" viandanti





Lo tempo era buio e tempestoso, li venti soffiaveno forti e fu così che lo Peregrino decise de rimettese in cammino, giammai curante de li tempi avversi. Con il core in gola si fece sull’uscio, mentre lo Magistro suo e li altri della scuola lo salutaveno sull’uscio piagnucolanti. Lo scarlatto Peregrino sapea che in cor suo non lo avrebbero mai fatto partir e per questo decise a suo malincuore di dover insistere e prender coraggio per varcar la soglia, la sua vita era sempre stata pregna di difficili decisioni. Sarebbe stato bello accontentare quella folla festosa, sarebbe stato bello rimaner il fiore all’occhiello dello Magistro suo. Ma il mondo anelava e scalpitava necessitando le virtute e la conoscentia, enorme aggiungerei, de Tristano lo musico dello popolo laitiano.

Vinse le emozioni e strappandosi letteralmente le mani dello Magistro suo di dosso
prese il volo dalla finestra della scuola senza rompersi del collo l’osso.
Mise in pratica l’arte appena appresa
tramutandosi in falco con l’ala tesa
La giovine sguattera Geraldina a cui avea rubato la virtute e lo core
Mandò a prender in cantina er vino bono dello suo padrone e signore
 Colse l’occasione spiccando il volo come falco non a caso
Lasciò la poveretta con un bicchiere in mano ed un palmo di naso
Lo Magistro suo invero fu sollevato
Di vederlo andar via tutto d’un fiato
Non vi fu gran rammarico per lo Mago invero
Visto che gli avea svuotato delle provviste l’armadio intero
Con Pelopia alle spalle ed una nuova arte in borsa
Lo Scarlatto Peregrino se ne andò via e di gran corsa

E così tra il lasco ed il brusco con il suo cavallo, Fausto di nome e di fatto, si mise in cammino per raggiungere ancora una volta il suo destino. Pochi giorni prima avea ricevuto una missiva da li suoi compari, che lo invitaveno a presentasse presso lo borgo de Zena. Indubbiamente furono tutti felici e contenti de rivedè la faccia sua allegra e bontempona, scene di panico e giovinette ammiccanti non appena si apprestò a metter lo piede, e non solo lo piede, nello antico borgo. Lo musico era ormai abituato a tali sentimenti, non capiva come mai però tra i suoi sostenitori vi fossero più donne che omini, anzi a dire il vero l’omini non lo poteveno proprio vedè…Che bislacca coincidenza e proprio mentre rifletteva su questo tema si ritrovò tra le braccia de li amici sua pronto per una nuova e mirabolante avventura. Ecco li li…il trio…il gruppo….la compagnia….ma come era possibile che niuno nome avean scelto si domandò e disse tra se e se…così entrando nella locanda dove avventori assonnati e mezzi avvinazzati rovinavano sui tavoli esclamò in un impeto di gioia , ad alta voce…..va bene quasi urlando….in effetti urlando a squarcia gola…LO NOME LO NOME DE LO GRUPPO INVERO DOVEMO DA TROVA’……


Ci mancò poco che non lo percuotessero per bene, e che il vecchio Tobia per poco n’infartasse, e così fu costretto pe placà l’animi a fa un mezzo balletto. Quello che accadde poi non ve lo svelerò oggi ma lo potrete sicuramente scoprir nelle prossime novelle.