giovedì 17 novembre 2016

Errando per Laitia - Episodio 8

De lo Santo Maglio, la Pietra su lo Palo et lo Zufolo Incantato

Lo Magistro, dopo mesi di totale devotione a lo studio et perfetionamento de la Scientia Arcana, ebbe infine modo di veder riconosciuti li propri sforzi.
Memorizzata la formula de la Regola Aurea, initialmente concepita da Ottavianus Firminus, ma realizzata solo et esclusivamente gratie a la collaborazione con Alburno, et manufatto lo suo primo prototipo di Pietra Filosofale, o Crisopea, ancora vacua d'ogni potere a causa de la mancanza di un ultimo ingrediente, lo Magistro capì che li tempi de la sua permanenza in quel di Zena eran ufficialmente volti al termine.

Quasi in concomitanza, come se divine entità intendessero de la importanza de le sue scoperte et volessero lasciarlo concludere, lo strano sogno iniziò a presentarsi, ne lo corso de le notti, sempre con maggior ricorrenza.
La diafana figura di grigio ammantata e d'oro merlata appariva indistinguibile in una antica grotta abbandonata. Li suoi tratti eran poco distinguibili ma decisamente familiari et la sua voce gentile appellava: "Venite! Venite meco!"
Specie quel verbo, plurale, destò curiosità in Alburno che ne li suoi sogni soleva viaggiar solo... e manco a farlo apposta, la mattina successiva, ne la piazza antistante lo laboratorio de lo Magister Firminus, apparve a predicar menate come suo solito una vecchia conoscenza a lungo attesa: lo virile Frandonato.

Lo frate poco pio sembrava aver finalmente trovato la sua via. Vigoroso et pasciuto come se nemmeno uno giorno fosse passato da la sua partenza, indossava sempre la stessa tunica, forse neppur lavata da allora, che astutamente nascondeva la fitta maglia metallica da battaglia. Predicava dinnanzi uno piccolo altarino, null'altro che una croce tau alta più di tre cubiti che opportunamente ribaltata et impugnata fungeva da grosso et pesante maglio da guerra. Raccoglieva offerte in un secchiello in terra, metallico ma di cuoio rivestito, null'altro che uno solido et pesante elmo.
Frandonato ebbe modo di spiegare al buon Alburno che ne li mesi passati si unì ad una compagnia mercenaria, portanto la Nova Fede in giro per la Laitia occidentale a suon di mazzate ne lo nome di Santa Starnazza.
Ciò che realmente destò l'attenzione de lo Magistro fu che lo suo compare ebbe in visione lo stesso sogno, anche se ne la sua versione la figura ammantata era donna, et forse pure di facili costumi. Alburno attribuì quella differenza di particolari a la perversione latente de lo frate et gli diede poco peso, ma insieme voller appurare se anche Tristano, fuggito da le guardie de lo Conte Gualfero di Epilorna in quel di Pelopia, avesse ricevuto lo medesimo presagio et così gli spediron una missiva.

Frandonato porto a la attentione de lo Magistro anche la pergamena che a lungo avea tenuto seco, lasciatagli in eredità da li ignari frati di uno de li monasteri in cui avea militato. Li antichi papiri descrivean un loco, in terre vicine geograficamente ma storicamente assai lontane, in cui uno tesoro era ancor sepolto et attendea l'avvento di un'anima coraggiosa, avventurosa et dalla incrollabile fede.
Riconoscendo in Frandonato sicuramente due delle tre virtù richieste Alburno decise che potea valer la pena di trovar codesto tesoro, tanto più che l'ingrediente mancante per la sua Crisopea l'avrebbe ottenuto solamente viaggiando.
Tosto preparò lo carretto, lo fido mulo Grullo et si commiatò con rimpianto da li suoi ospiti di Zena, lo Magister Ottavianus Firminus et li suoi stipendiati: lo scriba Alceste et lo soprammobile Fidenzo.

Lo Peregrino Scarlatto giunse poco prima de la partenza, arrivando con tale tempestività che non si potè far a meno di pensare che non vedesse l'ora di ricever notizie da li suoi compari; e disse d'esser mago.
Tristano era lo stesso, identico, esuberante, chiassoso fanfarone di prima. Si presentò intonando uno motivetto con lo zufolo, che avea sostituito la sua storica zampogna, et si dichiarò pronto a partire per nuove avventure. Sull'esser mago lo Magistro ebbe subito a dubitare, ma con suo grande stupore dovette presto ricredersi...

Ignorando momentaneamente li sogni che i tre compari avean condiviso, non avendo altri indizi, lasciata Zena, si diresser al confine con la Tauria, verso le pendici de li monti ove la antica pergamena de lo frate indicava esister un tempo il podere di un Pio Conte: la dimenticata landa di Castel Vero.
Le indicazioni esplicite parlavano di uno loco da cui initiare le ricerche: uno piccolo borgo noto per una grande fiera, appellato Borgoratto.

A lo intraprendente Alburno la destinazione et la lontananza de la meta importavan poco, se v'era di mezzo uno tesoro, avventura et ricchezze tanto meglio, ma lo suo vero scopo era coglier l'ultimo tassello, con l'avvento de le belle e soleggiate giornate di primavera, per la realizzazione de lo suo più magno experimento. La sua Crisopea era pronta ne la sua forma materiale: una pietra irregolare, poco meno grande di uno pugno, da lo colore paglierino pallido; quel che le mancava era una buona dose di energia naturale arcana, la più pura et potente che le Divinità Pristine avean partorito: la calda et eterna luce de lo Sole.
Così lo Magistro avea accroccato la sua pietra su la punta di una lunga pertica, ben fissata con lunghi intrecci ramati, et la tenea sempre in bella mostra su lo carretto, orientandola di volta in volta lungo il corso de lo girodì perché li raggi de lo fulgido astro potesser sempre giunger ad essa perpendicolari. Si trattava solo di attendere per assistere a lo prodigio.

Borgoratto era invero uno minuscolo paesino. Poche case et fattorie arroccate su di un colle a le pendici de li monti, lungo li confini di una vasta foresta et palude.
La modesta locanda era retta da una ligia vedova di nome Puccina et le due sguattere Lina et Pina. Ospitava come di consueto la consulta cittadina et un paio di mercanti itineranti.
La discussione de lo girodì verteva intorno la annuale fiera di paese, commemorativa de la cacciata de la iperborea Regina Pedoca et le sue orde, che rischiava di saltare a causa di ripetuti furti ne lo magazzino ove li solerti paesani accumulavan le libagioni da lo anno precedente.
Li più timorosi attribuivan la colpa a lo Omo Topo, figura storica che diede nome a lo abitato quando, rubando uno poco per volta tutte le provviste dell'invasore iperboreo, costrinse loro a la ritirata et rifocillò li assediati rintanati in Castel Vero.

Aguzzate le orecchie et colta al volo l'occasione, lo saggio Alburno convinse facile li suoi compagni a proporsi per indagar sui misteriosi accadimenti, guadagnandosi in avanzo la possibilità di dormir e mangiar a sbafo per qualche giorno et magari far le giuste domande per capire ove fosse situato lo loco descritto ne la pergamena di Frandonato.
Discussa la questione con lo capo de la consulta, tal Norberto, che ne la storia de lo Omo Topo proprio non credeva, l'avventuroso trio solerte si diresse ad ispezionar lo magazzino, pieno zeppo d'ogni cibaria et libagione, sorvegliato notte e dì da uno paio di nerboruti imbecilli bravi a dir "Nessuno Entra! Nessuno Esce!" quanto a russar di grosso durante li turni al chiar di luna.

E così, mentre lo scaltro Peregrino Scarlatto origliava in giro pel paese, scoprendo una probabile combutta tra li mercanti ospiti in locanda et Balestrino, lo fattore responsabile de lo magazzino, l'attento Alburno et lo fiero Frandonato scoprirono una via d'accesso ben nascosta sul retro dell'antico magazzino, ricavato invero da una antica torre risalente a li tempi de le invasioni iperboree, forse la stessa da cui l'Omo Topo avea rubato le provviste de la Regina Pedoca durante l'assedio di Castel Vero!

Scoperto lo modo in cui lo vile ladro trafugava il cibo nottetempo, l'astuto Magistro Alburno suggerì che lo modo migliore per acciuffarlo sarebbe stato coglierlo con le mani nel sacco.
Così, accertatisi che nessuno eccetto Norberto sapesse de lo loro piano, dopo il tramonto, i tre eroi si intrufolaron di nascosto ne lo magazzino in attesa de lo intruso...

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