mercoledì 24 luglio 2019

Prologo - Arianne Lòrene Vudruille



Reginald Vars raggiunse l’indirizzo che gli era stato indicato, una misera abitazione della periferia di La Ruelle, in una via popolare e chiassosa in cui bambini di popoli differenti si rincorrevano chiassosamente all’inseguimento di un grasso bombo ammaestrato.
Salì i tre gradini che conducevano all’ingresso e notò il piccolo campanello al lato della semplice porta, ne tirò delicatamente la catenella ed ottenne in risposta un garbato tintinnio che annunciava il suo arrivo.
Durante la manciata di secondi che trascorsero prima che la porta gli venisse aperta si soffermò ad osservare i piccoli dettagli attorno a lui: gli ottoni finemente lucidati, la ghirlanda di muschi profumati sulla balaustra del piccolo portico, le tendine ricamate che lasciavano solo trasparire l’ordinato arredo interno. Una fata, se di buone maniere, resta sempre una fata.

Ad accoglierlo fu un giovane fae, nel pieno dei focosi anni della sua adolescenza. Senza troppe cerimonie gli diede il benvenuto e lo invitò ad entrare, indicò un archetto che conduceva ad una stanza sul retro della modesta ma adorabile abitazione, dalla quale proveniva un delizioso profumo di cucinato, poi tornò di corsa presso il piccolo focolare presso cui lo attendeva un grosso libro fittamente illustrato: “Ci sono ospiti!”
Lo sprigo estrasse dalla borsa e rigirò tra le mani la piccola pergamena che era venuto a consegnare poi alzò lo sguardo prestando attenzione alla figura che adesso si era affacciata allo stipite innanzi a lui: “Bonsoir messieur...” la fata salutò in fae nobile e gli sorrise cordialmente, vestiva un abito semplice di un pallido colore azzurro, portava un fazzoletto in fronte a raccoglierle i capelli ramati ed un candido grembiule da cucina deliziosamente ricamato con vivaci ricami di api e miele.
“Madame...” rispose Reginald ricordandosi frettolosamente di togliersi il cappello in segno di saluto e rispetto “...mi chiamo Reginald Vars, messo incaricato di recapitare questo invito alla vostra padrona” si accorse quasi subito dell’errore, sentendosi gli occhi di entrambi i suoi ospiti addosso ma non fece in tempo ad arrossire per l’imbarazzo che la ragazza non trattenne una risata divertita, allentando la tensione, poi si ricompose pulendosi le mani sul grembiule: “Credo cerchiate me, Messieur Vars: Arianne Lòrene Vudruille, dovete sinceramente perdonarmi per avervi accolto in queste vesti, non attendevo di certo visite…” lui cercò di scusarsi ma appena aprì bocca venne interrotto dall’indice alzato della sua interlocutrice “...ma siete invero giunto in un momento eccellente, il pasticcio è pronto ed ho bisogno di un assaggiatore assai più imparziale del buon Hectòr…” ammiccò al fratellino seduto con il libro tra le gambe “...venite vi prego, accomodatevi, sarete stanco, giungete da Astraviya?”
Inatteso, informale, improvviso. La giornata era stata lunga per Reginald Vars e quell’invito suonò tanto bizzarro quanto accogliente. Si chiese se quella fata che avrebbe duellato per Ser Volikov si sarebbe battuta a colpi di spillo o di timballo, ma poi decise di godersi l’invito e la squisita ospitalità che gli era stata offerta e non ebbe a che pentirsene.

[...]

La luce diurna aveva da poco smesso di far splendere Astraviya, lontana all’orizzonte, dei colori di mille arcobaleni. Le ombre della sera erano padrone delle vie de La Ruelle e fate diligenti si apprestavano ad accendere i lampioni ai lati delle larghe vie commerciali della cittadina di frontiera. Un centinaio di minimetri più in là, dove le casette si facevano più fitte ed i lumi più tenui, un’esile figura ammantata nell’oscurità armeggiava di fronte alla fragile porticina di una piccola ma ben tenuta casetta.
La sacca da viaggio sulle sue spalle sembrava un pesante fardello mentre armeggiava nelle ampie vesti in cerca di qualche cosa. Quando infine trovò le chiavi tirò un sospiro di sollievo, aprì la porta e si infilò all’interno lestamente, facendo bene attenzione a non far troppo rumore.
Arianne superò il salottino osservando affettuosamente con un sorriso la fragile figura di suo fratello, addormentatosi ancora una volta con la Storia Illustrata della Guerra Domiciliare tra le braccia. Arrivata in cucina posò in terra la sacca da viaggio e con premura ne estrasse un lungo fagotto, ripiegato con estrema cura che si affrettò a riporre in alto, sopra la credenza, poi dalla sacca estrasse delle vesti, anch’esse ripiegate a dovere, accese un lume ed uscì sul retro, fino ad un catino ricolmo d’acqua, dove le spiegò ed iniziò a pulirle: la manica era strappata e la grossa ed intensa macchia dorata era in esatta corrispondenza della vistosa fasciatura che le stringeva l’avambraccio. Rimosso il sangue si occupò di rammendare la manica della camicia e solo una volta riposto l’abito da duello nella cassapanca, insieme a pantaloni, stivali e corsetto, si occupò di cambiare le bende alla ferita. Infine svuotò il sacchetto che portava alla cintura su un comodino, contò una ad una le piastre guadagnate, ne nascose una buona parte dentro una vecchia scarpa appesa alla parete, lasciandone solo un paio a portata di mano per le necessità quotidiane.
La grande finestra iniziava già ad illuminarsi nuovamente della splendente luce del giorno quando infine, esausta, crollò sulla brandina.

[...]

Era tardo pomeriggio e suo fratello non era ancora rincasato. La cena era fredda ed Arianne iniziava a spazientirsi, o forse era solo in pensiero.
Avrebbe voluto sedersi a tavola ed immaginare che tutto fosse come gli altri giorni, che dopo cena sarebbero andati a coricarsi ed il giorno dopo di nuovo a lavorare, lui in bottega e lei alla locanda, mettere da parte i granelli per tirare a campare un giorno ancora e vivere di quel che avevano, dimenticando il passato, vivendo il presente e senza pensare al futuro. Invece conosceva suo fratello, Hectòr Leòn viveva nel rimpianto e nella disperazione, si rifugiava nei libri illustrati in cui cercava di rivivere le gesta del padre, anonimo eroe per cui aveva perso ogni cosa pur di difenderne il nome. Arianne invece lo faceva per lui, perché potesse tornare ad aver speranza, perchè potesse rialzare il capo, perché potesse tornare ad essere un Figlio delle Stelle.
Uscì a cercarlo, chiedendo ai bambini del vicinato se l'avessero visto, chiamandolo a gran voce e destando la curiosità di più di un vicino ed infine lo trovò seduto su di grosso fungo, con le gambe raccolte al petto e lo sguardo rivolto alla parete nord della sala da pranzo, verso i monti di Nerolucido.
"Hectòr! Hectòr Leòn scendi subito! Sai da quanto tempo ti sto cercando?"
Non ottenendo risposta la fata non ebbe altra scelta che spiegare le ali e sollevarsi fino ad intercettare lo sguardo del ragazzo: "Hector… dai andiamo a casa… ho preparato i biscotti al miele…"
"Perchè vai via?" rispose finalmente, mestamente il ragazzo.
"Lo sai, non c'è altro modo… è l'unica occasione che abbiamo…"
"Non c'è modo Arianne, non c'è bisogno, davvero…"
"No! Non voglio sentirtelo dire maledizione! Abbiamo una possibilità e vorrei tanto che invece di compiangerti anche tu cercassi di venirne fuori!"
"Ma io non voglio che tu ti faccia male per me! Non voglio Arianne! Mi sei rimasta solo tu!"
Mentre gli occhi color muschio e rugiada della fata si inondavano di lacrime gli porse le mani: "Vieni, andiamo a casa"
"Scendo da solo…"
Rapidissime le ali della ragazza battevano fino a portarla a posare di nuovo i piedi al suolo, il giovane fae invece discese dal fungo calandosi a fatica dal cappello e poi scivolando lungo il fusto.
Arianne lo attese a terra, osservando fugacemente i moncherini delle ali crudelmente segati via dai Tristellati, poi insieme tornarono a casa.

Il mattino seguente Arianne Lòrene attraversò zaino in spalla la frontiera del Reame, diretta a Sottogradino, in cerca di un ingaggio da duellante che le avrebbe fruttato quei maledetti 50 crì con cui un giorno poco lontano sarebbe finalmente tornata insieme ad Hectòr Leòn nella città natale di Mont Guignol e avrebbe pagato i tanto decantati e miracolosi servigi del Maestro Auguste Fabergè.

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